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Robert Wyatt - Muzak - Anno 2 - Numero 8 - Giugno 1974
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Chi è dunque questo personaggio enigmatico (?) e sfuggente, semplice ma labirintico, che tutti hanno sentito nominare ma che pochi conoscono davvero, lo stesso che rifiutava l'invoincombenti sul suo vecchio gruppo rifugiandosi (nel luzione ed il cerebralismo 1970!) in opere stupefacenti come « The End Of An Ear »? Che riusciva a portare un calore quasi mediterraneo nella sua poesia, che si proclamava ispirato da « Alice nel paese delle meraviglie » e che rifiutava di parlare del suo passato, sempre teso alla ricerca, dell'attimo, del presente?
«End Of An Ear», si diceva, è la chiave essenziale per penetrare il suo mondo: sogni che il Melody Maker ha pensato bene ignorare, e che non possono certo essere venduti a peso, o funzionalizzati alla ricerca del « migliore » di un referendum straccione. Sono i tempi in cui imperversa un Ginger Baker, e ci si può anche dimenticare di chi cerca (già, Robert è un «batterista ») nuove dimensioni in ogni singolo momento della propria espressione: ma il disco non lascia certo il tempo di perdersi in quisquilie tecniche, di osservare la raffinatezza e la pulizia del gioco strumentale di Wyatt.
Perché l'impatto avviene a mille livelli, tutti egualmente significativi ed importanti: e l'elemento che lega e coordina ogni grido, intuizione, immagine sfugge ad ogni classificazione di comodo. Da una parte il recupero di alcuni temi (o meglio, non-temi) di derivazione jazzistica, alla ricerca di una libertà assoluta da qualsiasi schematismo o limitazione: il pensiero come unica forza motrice, e pochi scarni strumenti ad esplorare in assoluta autonomia il proprio mondo, senza mai scontrarsi o castrarsi a vicenda, ma conservando una perfetta coordinazione ed unità di fondo. Dall'altra musica che vive ogni singolo particolare con incredibile attenzione, ma che non perde mai di vista i propri scopi: un messaggio importante ripetuto in mille forme ma sostanzialmente semplicissimo.
Dove l'ascoltatore diviene finalmente il punto di partenza, e non il terminale del suono, abbandonando la propria « storica » passività; dove gli stimoli al ribaltamento di ogni assioma formale si fanno violentissimi, ed ogni stantia formula schiava della musica-consumo muore di morte naturale.
Interpretiamo come deliri brani come « Las Vegas Tango », se vogliamo: ma a ben vedere c'è tutta una limpida chiarezza d'intenti dietro alle morbide-magiche acrobazie del suono, capace di minare seriamente la cultura mistificante su cui lo show-business ha fondato la sua opprimente potenza.
Oltre i livelli della nostra percezione! ci ammonisce Bob: non è sempre tempo di « good vibrations », e questo è il momento buono per un radicale rinnovamento. Il simbolico orecchio del titolo, sembra sogghignare il nostro, in realtà non ha fine: a meno che noi stessi non vogliamo porre limiti precisi (culturali, sensoriali, emotivi...) alla capacità di Ascoltare, di comunicare, di esprimere.
Un segnale di fumo che troppi sono impreparati a ricevere, e che cade tristemente nel vuoto: certo, non è semplice né comodo accettare di rimettere in discussione ogni cosa, e miriadi di Ten Years After e di Simon & Garfunkel sorridono dalle pagine dei giornaletti...
Ma il seme è stato gettato: ed anche se il successo commerciale resterà sempre un sogno lontano, la figura del musicista ne resterà comunque profondamente influenzata. Bob lascia i Soft Machine, prigionieri del gelido Dean, e tenta un'avventura davvero sua con i compagni di sempre, Phil Miller, David Sinclair... il gruppo si chiamerà Matching Mole (da un'assonanza con la traduzione francese di « Soft Machine », e cioè « Machine Molle »): ma le strade battute saranno ben lontane da quelle predilette da Ratledge.
Fin dal primo album: che forse non è un capolavoro come « End Of An Ear », ma che tenta di continuare il discorso di « Moon In June » con un'ancora più vasta scelta di toni e colori, ritornando nello stesso tempo ad una maggiore linearità. Pochi momenti sperimentali, molte atmosfere delicate e dolcissime, da « Caroline » — un vecchio motivo d'amore scritto a 14 anni — a «Signed Curtain»: e stupende armonie vocali ad accavallarsi e a dissolversi, trascinando irresistibilmente ogni fibra del tuo corpo in meandri tutti da scoprire. Bob mostra di essere, oltre che un musicista poliedrico e completo, un abile alchimista del suono: le note del suo mellotron godono di una fluidità incantevole, e la successione delle atmosfere riesce sempre viva, accattivante, convincente.
L'organo di Sinclair, il suo caratteristico timbro « sporco » e leggero a cadenzare ogni situazione, nebbie impalpabili e frasi appena sussurrate, o la chitarra perennemente distorta di Miller... ogni elemento concorre con invidiabile semplicità alla concretizzazione di ogni spunto: l'improvvisazione diviene automaticamente la unica vera direttrice, ed il respiro di chi suona entra in sincronia con la creazione stessa.
Un lavoro, un'altra gemma: ma anche qui l'aggancio con il grosso pubblico non riesce: « II Sound manca di spettacolarità », e così le figure dei musicisti: i Bowie ed i Cooper covano nella ombra, e troppe persone hanno perso gusto e sensibilità nel frastuono dei decibel in eccesso, nelle melensaggini senza cuore dei Tops Of The Pops. Quando esce « Little Red Record » (e la copertina, con i musicisti vestiti da Guardie Rosse a sventolare il libretto, è un'ultima amara stilettata per chi vive di miti ed icone, di schemi schemi solo schemi) la terra è già bruciata: sarà il colpo di grazia per tutte le illusdoni residue.
Dave McRae, più jazzistico, etereo e metallico di Sinclair, è il nuovo pianista: il suono sembra ritornare sulle strade più complesse dei migliori Soft, pur conservando i suoi caratteristici elementi fantastici e visionari. C'è una nuova ansia di ricerca, in ogni caso: la comprensione della necessità di un'espressione dinamica si traduce in una continua tensione verso una nota, un'idea diversa e più significativa, e nemmeno la produzione di Fripp riesce a frustrare la felicita « anarcoide » di momenti come « Gloria Gloom » o « Righteous Rumba ». I Matching Mole afferrano la sostanza più densa del tuo corpo e la fanno vibrare, in una molteplice serie di combinazioni sonore che riescono sempre ad entrare in intimo rapporto con la sensibilità di chi ascolta; un magma strumentale ipnotico, straordinariamente immaginifico ed « in sintonia », destinato ancora una volta a coinvolgere nella perfezione di ogni sfumatura.
Ma è la fine, decretano i mostruosi conformismi dei media, troppo occupati ad inseguire burattini rigurgitanti lustrini: la fiaba finisce all'incontrano, abbandonando i suoi protagonisti senza gloria né denaro né fama né soddisfazione. Mc Rae sceglie i Nucleus, Miller torna con i vecchi amici di Canterbury in Hatfield And The North; Wyatt ha la magra consolazione di vedere pubblicato « New Violìn Summit », con la sua esibizione al festival di Berlino nel 71, e di essere per questo riconosciuto (era ora...) come uno dei « più brillanti batteristi europei ». Il resto è cronaca. Nel giugno 73, durante un party, Bob vola da una finestra al quarto piano. La prognosi è riservata, e la cartella clinica parla di una paurosa serie di fratture: Wyatt vivrà, ma le sue gambe resteranno per sempre paralizzate.
Un dramma che si consuma in silenzio, solo poche righe della « stampa specializzata » — l'uomo non fa notizia —, la costernazione degli amici di sempre, il lavoro dei nuovi Matching Mole (Bill McCormick, Francis Monkman, Gary Windo) stroncato sul nascere. Dopo dieci anni di attività Bob si ritrova con cinque
sterline in banca (sic), e la prospettiva di una lunghissima convalescenza.
Quattro mesi dopo l'incidente, Soft Machine e Pink Floyd — già compagni di stenti in notti londinesi del '67, l'UFO ed i primi sussulti di pop — si esibiscono devolvendo l'intero incasso al musicista, mentre si aprono altre sottoscrizioni. Vengono raccolte diecimila sterline: Robert annuncia la sua intenzione di continuare, anche solo come cantante o tastierista. D'altronde — si riflette — è un vero pluristrumentista: suonava la chitarra con Allen in « Banana Moon », il basso, perfino la tromba in un trio parigino di tanto tempo fa, accanto a Daevid Allen ed al piano di Terry Riley... una formazione di boogie woogie, proprio così...
E poi lo abbiamo ritrovato in un mattono di maggio, una foto sull'album di Hatfield And The North che ce lo presenta distrutto, inchiodato ad una sedia a rotelle, ma ancora la sua inconfondibile voce per pochi istanti, e già centinaia di mondi che si aprono...
Continuare. Robert Wyatt ci ha regalato l'incanto del momento e la complessità del pensiero, abbandonando i paurosi e gli imitatori sulle comode strade del « rock-jazz » o di qualsiasi altro discorso troppo semplice; è divenuto un paria della scena inglese per trovare una conoscenza illimitata — e le sue opere sono fonti inesauribili di spunti ed idee, il passato ed il futuro... —, con una determinazione lontana da ogni calcolo utilitaristico quanto lucida e beata, paga della propria stupenda consapevolezza.
Marco Fumagallì
Foto: Roberto Masotti
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