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 Robert Wyatt - New Wave La scena post-punk inglese 1978-1982 - NDA Press 2010


Robert
Wyatt

intervista

Pierfrancesco Pacoda



A qualcuno potrà sembrare fuori luogo includere Robert Wyatt nell'ambito dei musicisti rappresentativi della nuova ondata; altri, quelli che son cresciuti con il punk e acquistano oggi tutte le opere che Rough Trade stampa, si saranno interrogati, senza trovare risposta, sull'identità di questo non più giovane cantante.


Ad ascoltare, poi, la sua prima uscita per la label di Blenheim Crescent, la meraviglia sarà aumentata ancora, dapprima per il tipo di materiale inciso, Caimanera, un classico di Pete Seeger e una ballata di Violetta Parrà, insomma quanto di più atipico per le genti che affollano il negozietto dalle parti di Portobello, subito dopo per la maniera in cui il materiale è stato manipolato, per l'incredibile sensazione di pace, di rilassatezza che l'ascolto, inevitabilmente, procura. Melodie lineari, una pacatezza infinita a far da sfondo alla più bella voce che la musica giovane abbia mai partorito. Al di là dei generi, innanzitutto, perché Caimanera potrebbe essere stato registrato ai tempi di Rock Bottom o, al contrario, anticipare le future direzioni della nuova ondata. Quello di Wyatt è veramente un caso unico (Mayo Thompson a parte), appassionato protagonista di due differenti stagioni del rock, mai in maniera appariscente, da prima pagina dei rotocalchi specializzati, ma con eleganza e raffinatezza, senza sbagliare una prova, stupendo tutti a ogni disco, legandosi alle menti più fervide, non certo ai rockmen da classifica. Ricordare le tappe più importanti del suo viaggio attraverso la musica, vuol dire ricordare Soft Machine, Brian Eno, Daevid Allen, insomma l'underground più autentico e creativo. Così come Eno (non è un caso!) lo ritroviamo oggi, vecchio saggio, a profondere insegnamenti ai giovanetti che per sperimentale intendono il sound dei Cabaret Voltaire. Pur senza voler nulla togliere ai manipolatori di strumenti elettronici che nella nuova scena abbondano, l'eleganza della citazione di Wyatt è lungi dall'essere superata dal sound occulto proposto, ad esempio, dalla scuola di Sheffield. Tutto ciò, ancora una volta, senza clamore, senza scomodare strane spiegazioni per giustificare la réntrée, soprattutto evitando di trasformare il fatto nell'evento dell'anno.


Così molti dei vecchi fans nemmeno sapranno che esiste una label londinese di nome Rough Trade, che opera con criteri non commerciali, scevra da calcoli di mercato, con il solo scopo di promuovere materiale altrimenti destinato a rimanere su nastro. Questo, certamente, con Wyatt non sarebbe accaduto, visto il rapporto con la potente Virgin, che aveva pubblicato le sue opere precedenti, ma il musicista, in linea con il suo modo di essere, ha voluto evitare parole roboanti e sprechi di pubblicità, meglio, allora, un singolo nel più prestigioso catalogo new wave che esista. Tutto tremendamente lovely, come si usa dire adesso, ma dall'artefice di Moon In June non potevamo, veramente, aspettarci di meno. Intanto è uscito un altro singolo, ennesima citazione, ancora una sorpresa, questa volta si tratta del rifacimento di una song delle Chic, gruppo funky-disco americano, At Last I'm Free.


Le parole di Wyatt, probabilmente sono le più ponderate tra quelle che abbiamo ascoltato, la ragione mi sembra evidente, le esperienze a qualcosa servono, l'aver osservato così tanti anni di rock, sempre dalla parte degli "estremisti", alla fine ha dato i suoi frutti. Nel musicista c'è, soprattutto, disillusione, la certezza, anzi, che tante speranze riposte nella musica, non si sono evolute nella direzione auspicata. La sua generazione ha creduto che cambiare il mondo fosse estremamente semplice, e la musica lo stava facendo. Ebbene, nulla di più drammaticamente sbagliato; se si vuole realmente incidere nei processi trasformativi della società, bisogna farlo utilizzando i tradizionali canali della politica, non le canzonette. Questa non è restaurazione, è semplicemente realismo, perfetta coscienza di un universo, quello rock, che continua a ingannare i suoi nuovi abitanti, i punk rockers dell'ultima ora.


Come logica conseguenza di tutto ciò, avendo constatato che non è la musica a muovere le masse, Wyatt è approdato alla politica vera, iscrivendosi al Partito comunista inglese e dichiarandosi interessato a una militanza di cui non riusciamo a intravedere i contorni. Forse i seguaci del delirare anarchico di Rotten non gradiranno le teorizzazioni del nostro che sostiene in continuazione la sua amara tesi: «Johnny Rotten, è un altro eroe romantico, un buon musicista pop, come Jagger, ma nulla di più...»


Ma il musicista continua la sua azione dissacrante, intaccando miti su cui sono cresciute le generazioni di una volta, parole sarcastiche, dunque, nei confronti degli amici di un tempo, dei compagni delle sfrenate avventure musicali di Canterbury, dove Wyatt è vissuto durante la gioventù e si è formato musicalmente.


La vecchia scena ne esce a brandelli, svuotata di qualsiasi carattere sacro che le era stato attribuito. Il suo stesso ruolo, a posteriori, riveduto con occhio critico e ogni volta che il discorso sconfina nei fasti di Canterbury, Wyatt non può fare a meno di sfogare la sua amarezza, cercando in ogni modo di cambiare argomento. Forse è proprio lui, questo straordinario sopravvissuto, l'inevitabile tratto d'unione tra le illusioni di un tempo e le speranze dei nostri giorni, che, nonostante tutto, sembrano essere autentiche. Le sue parole, sicuramente, inducono a tristi meditazioni, e tutto ciò non è spiegabile, assolutamente, con gli incidenti che hanno funestato la sua esistenza. Qualunque cosa succederà alla nostra ondata, ne siamo certi, Wyatt sarà già oltre, a indicare le future strategie.




«Robert, come mai dopo un periodo di silenzio così lungo, hai deciso di ritornare a incidere un disco, e perché lo hai realizzato per Rough Trade, un'etichetta indipendente che si sta distinguendo essenzialmente per il materiale new wave del suo catalogo?»


«Il motivo principale è che sentivo l'esigenza di lavorare, non si può stare sempre seduti a pensare. Ho scelto di incidere per Rough Trade perché non sono per nulla interessato alla politica culturale delle grosse case discografiche, la Virgin ormai si avvia a diventare la CBS americana, e, sinceramente, i vantaggi che poteva offrirmi non mi allettavano. I responsabili di quella label mi ripetevano di poter contare su un'ottima distribuzione, ma vendere dei dischi in Giappone non è la mia massima aspirazione, in questa momento. Rough Trade, almeno, non fa del colonialismo culturale!»


«Quali sono stati i motivi che ti hanno indotto a interrompere la tua attività per un lasso di tempo così lungo?»


«Se devo essere onesto non sono stato mai felice di fare il musicista, suonare, per me, non è stato mai naturale, e ancora adesso non lo è completamente. Sono diventato un musicista perché non c'era veramente null'altro che potessi fare, i risultati a scuola erano pessimi, ho cambiato tantissimi lavori, il cameriere, il modello in un istituto d'arte, ma era molto più facile e più divertente fare il musicista rock. Se non hai molti soldi il rock'n'roll è una maniera fantastica di invecchiare senza grossi problemi, potrà sembrarti semplicistico, ma è questo che mi ha spinto a tornare all'attività discografica.»


«Quali ritieni siano le più interessanti differenze tra la scena musicale psichedelica, di cui facevi parte quando suonavi con i Soft Machine, e la situazione attuale?»


«Non penso che, in fondo, ci siano stati dei cambiamenti radicali, allora come adesso il musicista rock non è per nulla pericoloso, ma anzi corrisponde in tutto e per tutto all'immagine dell'eroe romantico totalmente integrato.»


«Quando nel 1976 il punk scosse l'apatia totale che sembrava aver avvolto il rock, ti sei sentito coinvolto dalla cosa?»


«La mia prima reazione è stata di nostalgia, vedevo un'altra generazione credere di poter cambiare il mondo con la musica, sperare che l'establishment britannico potesse essere scosso dal punk ma Johnny Rotten era un'altra figura di eroe romantico, un bravo ragazzo buono per le pagine dei giornali, ma null'altro.»


«Tu, adesso, ritieni di essere parte del movimento new wave?» «Non lo so, certo apprezzo moltissimo gruppi new wave, come le Raincoats, ma mi sento molto più vicino a musicisti come Dudu Pukwana o Mongezi Feza, african dance music di qualche anno fa.»


«E la tua scelta di incidere una versione di At Last l'm Free degli Chic?»


«Adesso va di moda dire che la musica degli Chic è pessima, è disco music, non fa pensare, senza accorgersi che così si rinchiude in delle definizioni una materia che, per sua stessa natura, le rifugge. Non parliamo poi di chi accusa la disco di essere fascista, è solo dance music, il suo scopo si ferma lì.»


«E la tua versione di Caimanera


«Qui il discorso è un po' diverso, attualmente sono interessato a ristabilire un eventuale collegamento tra la folk music e la rock music, è un argomento sul quale si è fatta molta confusione, ancora adesso mi è difficile comprendere fino in fondo quali possano essere le connessioni tra questi due tipi di musica.»


«Ascoltando alcuni gruppi della nuova ondata, Scritti Politti in particolare, il primo riferimento musicale che mi è venuto in mente è stata la scuola di Canterbury...»


«Per quel che riguarda gli Scritti Politti, ed anche altre band, probabilmente l'influenza maggiore viene dai musicisti reggae. Insomma, così come la mia generazione non è riuscita a sottrarsi al fascino dei rifugiati sudafricani che suonavano qui (come Feza), adesso bisogna confrontarsi con la cultura giamaicana, senza scordare che un batterista rock difficilmente può competere con un suo collega giamaicano.»


«Il punk era una musica nichilista, amava scagliarsi contro tutto e tutti. Tu ritieni che la musica, invece, debba avere degli obiettivi precisi?»


«Se parli di obiettivi politici, non credo sia possibile, io sto solo facendo degli esperimenti che ritengo estremamente interessanti, realizzando i remake di cui dicevamo prima, di certo non voglio essere accusato di esotismo, di accostamento di stampo colonialista a culture musicali che non sono le mie.»


«Si parlava precedentemente delle influenze palesi che certa new wave, la più innovativa, in definitiva, ha ricevuto da situazioni musicali ormai lontane un po' di anni. Allora di veramente nuovo non c'è nulla...»


«Non è per nulla vero! Ci sono state delle innovazioni di carattere tecnico, ad esempio nella registrazione dei dischi di Public Image, e poi è mutato lo stile, il modo di porsi nei confronti della materia musicale. C'è molta meno riverenza adesso, più velocità, e poi ci si è scrollati di dosso la deleteria influenza della tradizione accademica, che invece è stata una costante della mia generazione.»


«Vedi ancora la gente con cui suonavi all'epoca di Canterbury?»


«Sono ancora amico di Dave Stewart e Pip Pyle (morto nel 2006, ndr), ma non ho più molti contatti con tutta quella gente, né ricordo con molto piacere quel periodo, francamente non è un bel posto Canterbury, soprattutto per viverci.»


«Ma come è stato possibile che in una città di provincia del genere, esplodesse tutto quel fervore musicale?»


«Guarda che la famigerata scena di Canterbury non è mai esistita fino a quando noi non ci siamo trasferiti a Londra, tutta la mitologia è nata da nostre discussioni a Londra. Finché son vissuto a Canterbury, quello che si faceva era ascoltare dischi di Omette Coleman e Max Roach e della Tamia Motown. Non c'erano altre attività possibili, Canterbury è una chiesa più alcune banche, tutto qui. Poi c'era un gruppo di studenti che facevano gli anarchici e che suonavano, giusto perché non sapevano cos'altro fare. Io, Kevin Ayers, Daevid Allen, tutta gente proveniente da famiglie agiate, e che quindi poteva permettersi di non conformarsi al grigiore della città.»


«Pensi che in termini di feeling sia possibile un paragone tra il periodo dei Soft Machine e quello attuale?» «Certamente! Io sono fermamente convinto che il motivo fondamentale del grande successo del punk sia nella nostalgia della pericolosità di un gruppo rock, naturalmente questa pericolosità è solo un'illusione, credo faccia piacere sentirsi in qualche modo partecipi di un atto che si immagina ai confini con il lecito. Per me è questa, poi, la ragione del mod revival e dei trionfi che una band come i Jam, palesemente ispirata agli Who degli anni cattivi, sta ottenendo.»


Discografia Essenziale 1978-82


Arauco/Caimenera, marzo 1980 (7", Rough Trade)
At last I'm free/Strange fruit, novembre 1980 (7", Rough Trade)
Stalin wasn't stallin'/Stalingrad, febbraio 1981 (7", Rough Trade)
Glass/Trade union (Dishari featuring Abdus Salique), agosto 1981 (7", Rough Trade) Nothing can stop us, aprile 1982 (LP, Rough Trade)
Shipbuilding/Memories of you, agosto 1982 (7", Rough Trade)


       
     
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