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Robert Wyatt - Così Lontano, così vicino... - Late For The Sky
- numero 50 - Gennaio 2001
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ROBERT WYATT
Così Lontano, così vicino...
Di Marco Tagliabue
Esistono emozioni tali che, per il modo che hanno di interagire con la tua sensibilità, di toccare le corde più riposte del tuo io, ti avvisano in maniera chiara e ineccepibile, fin dal primo momento, che non ti abbandoneranno mai più per il resto della tua esistenza. Capita assai di rado, è vero, ma capita. Robert Wyatt entrò nella mia vita nella torrida estate di una Milano di tanti anni fa. Avevo appena tolto il cellophane da Third dei Soft Machine e mi apprestavo a passare una notte in loro compagnia: l'indomani avrei dovuto partire di buon mattino e per un pugno di ore non era certo il caso di mettersi a dormire... Nel silenzio irreale della notte, dove ogni cosa giunge misteriosa e ovattata, Moon In June fu l'astronave che mi condusse in uno strepitoso viaggio nei luoghi oscuri della mia coscienza, attraverso infinite pazze traiettorie che dal buio della mia camera puntavano diritto alla scia luminosa di qualche sperduta via lattea. Quella voce e quella musica, con forza maggiore di una testata contro il muro, avrebbero contribuito in maniera netta a cambiare per sempre i miei connotati. La voce di Robert, quel filo di fiato esile e struggente capace di assottigliarsi senza perdere mai il suo vigore, messaggero di infinita tristezza e melanconia, è invero capace di donarti una serenità che non è di questo mondo; la sua musica, così spesso scarna ed essenziale, e quell'organetto, metà strumento e metà giocattolo, dal quale nascono tutte le sue canzoni, bastano a farti capire che, anche oggi, non c'è bisogno di
altro per fare grande la musica.
E se per un attimo riuscirete a liberare la vostra mente da post-rock e drum'n'bass, jungle e trip-hop, exotica e techno-lounge..., a sottrarre una manciata di minuti all'affannosa ricerca dell'ultimo imperdibile album del mese, ad accantonare i dischi dell'anno e i capolavori di un minuto, sarete pronti per ripercorrere, una volta ancora, l'avventura musicale e umana di Robert Wyatt, l'esule che è impossibile non amare perché è, a suo modo, il più grande di tutti. Nella metà degli anni '60 Canterbury era ancora, semplicemente, Canterbury, tranquilla cittadina inglese famosa, tutt'al più, per le amene novelle di Geoffrey Chaucer; Robert, nativo di Bristol, vi si era trasferito all'età di dieci anni per studiare piano, violino, tromba e batteria prima di venire investito, come tanti in quel periodo, dall'irrefrenabile uragano della musica pop. I Wilde Flowers, attivi dal 1964 al 1966, vedono accanto a Wyatt l'amico di sempre Hugh Hopper. Il gruppo non consegnerà alla sua epoca nessuna testimonianza musicale diretta (la raccolta Tales Of Canterbury: The Wilde Flowers verrà assemblata solo molti anni più tardi, nel 1998, dalla benemerita Voiceprint) ma la sua importanza sarà enorme: autentica fucina della futura scena di Canterbury darà origine, oltre ai Soft Machine, ai Caravan e agli Hatfield And The North.
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La magnifica avventura dei Soft Machine (e mi si perdoni la presunzione di considerare tali solo quelli con Robert Wyatt in formazione) fu
contrassegnata da quattro album costantemente in anticipo sul loro tempo, cui toccarono inevitabilmente in sorte il favore della critica e l'indifferenza del pubblico. Dagli esordi con David Allen e Jimi Hendrix ospite alla chitarra solista nel battesimo a 45 giri, Feelin' Reelin' Squeelin'/Love Makes Sweet Music del 1967, il gruppo, dopo aver perso per strada il futuro Gong, giunge l'anno successivo all'album di debutto con una formazione a tre elementi che contempla Mike Ratledge alle tastiere, Kevin Ayers voce/basso e Robert Wyatt alla batteria. Volume One e il suo seguito del 1969, Volume Two, con Ayers rimpiazzato da Hugh Hopper per quella che sarà la formazione definitiva del gruppo, sono due splendidi esempi di musica psichedelica/progressiva con contaminazioni jazzistiche in equilibrio fragile ma ancora perfetto. Third, del 1970, segna un avvicinamento a composizioni di più ampio respiro, con le sue quattro facciate occupate da una suite ciascuna a firma di un solo membro della band, e, nello stesso tempo, prelude a una decisa virata verso atmosfere più marcatamente jazz-rock, tanto che l'album,
da molti considerato il capolavoro del gruppo, viene spesso indicato come una sorta di controaltare inglese al Miles Davis di Bitche Brew. Third è altresì purtroppo preludio alla disgregazione del con: plesso: Robert Wyatt, che già aveva faticato a far digerire la sua Moon In June a Mike Ratledge, verrà di lì a poco letteralmente estromesso dalla band per mano del suo nuove aspirante timoniere, che gli concederà solamente -bontà sua- un ruolo da session man di lusso nella successiva prova discografica dei Soft Machine, Fourth del 1971, l'ultima con Robert in formazione. Fra i due album intanto, a sancire l'ormai definitivo allontanamento dal gruppo, Wyatt trova il tempo di tenere a battesimo il suo esordio solista, The End Of An Ear del 1971. Approfittando della fiducia in lui riposta dalla CBS, che gli aveva lasciato piena libertà di movimento presagendo un'opera in stile Moon In June, Robert stravolge completamente le regole del gioco, realizzando il suo disco più ostico e coraggioso, un album il quale, oltre che ascoltare, è perfino difficile tentare di definire o di inquadrare.
La fine di un orecchio, ovvero di un modo di concepire e ascoltare la musica, è quello che viene necessariamente richiesto, o meglio imposto, a chi giunge al cospetto di questa prova: risentito oggi, a quasi trent'anni di distanza, The End Of An Ear suscita forse sensazioni addomesticate rispetto a quelle selvaticissime prodotte dai primi ascolti (tutto questo tempo sarà pure servito a qualche cosa!), ma conserva ancora intatta la sua veemente carica rivoluzionaria. Provate ad ascoltare ad esempio Las Vegas Tango, posta in apertura e ripresa in chiusura del disco, con le sue allucinate sovrapposizioni vocali, o il proto-free-jazz di brani quali To Saintly Bridget, To Mark Everywhere o To The Old World, o ancora le tastiere dissonanti di To Caravan And Brother Jim e To Carla, Marsha And Caroline. The End Of An Ear è insomma al tempo stesso punto di partenza e punto di non ritorno: chiuso un capitolo, toltisi tutti i sassolini dalle scarpe, Wyatt si sarebbe rimesso in gioco, si sarebbe rituffato nella mischia: la morte annunciata dal titolo lo avrebbe condotto, per sua e nostra fortuna, a una e più mirabolanti reincarnazioni.
La prima delle quali sono i
Matching Mole, con David Sinclair alle tastiere. Phil Miller alla chitarra e Bill Mac Cormick al basso, gruppo che. nelle intenzioni di Wyatt, doveva rappresentare una sorta di continuità, magari solo in senso ironico, con l'esperienza precedente (la pronuncia inglese di Matching Mole ha una dizione simile a Machine Molle, traduzione francese di Soft Machine). La loro avventura (che ci ha raccontato Francesco Caltagirone nelle pagine che
precedono) dura solo lo spazio di due album usciti a pochi mesi di distanza fra loro nel 1972, ma la loro eredità e la loro ramificazione nell'albero genealogico di Canterbury sono, al solito, di prim'ordine. Archiviato forse troppo repentinamente, il progetto Matching Mole sta per essere riesumato quando, durante un party evidentemente troppo psichedelico. Robert decide di scendere dal terzo piano senza usare le scale, rimediando uno spaventoso volo e diverse lesioni alla spina dorsale che
lo avrebbero relegato per sempre su una sedia a rotelle. Era la primavera del 1973.
" Tutta la gente che ho incontrato pensa che
il mio incidente sia stato la più grossa tragedia che mi potesse succedere. In realtà da
quando sono uscito dall'ospedale ho sposato Alfie e ho realizzato Rock Bottom, da lì è cominciato il periodo più felice della mia vita: improvvisamente, da quel momento, tutto è diventato semplice e chiaro".
La leggenda vorrebbe Rock Bottom (1974) concepito dal musicista durante i sei mesi di convalescenza, attorniato dalle amorose cure di Alfreda Benge, la compagna di una vita, e da un manipolo di amici fidati fra cui Nick Mason, Mike Oldfìeld, Fred Frith, Hugh Hopper, Richard Sinclair... in realtà, come più volte affermato dallo stesso Wyatt, la stesura del futuro capolavoro, che nel progetto originale avrebbe dovuto costituire il terzo album dei Matching Mole, iniziò prima dell'incidente, anche se, inopinabilmente, assunse la sua forma e il suo contenuto definitivo durante la lunga degenza in ospedale. Storia o
leggenda, quella che ci rimane è una delle opere capitali del nostro tempo, un disco che, fin dallo splendido acquerello di copertina, celebra la vita in tutti i suoi aspetti più profondi, trasformando in positivo tutto ciò che essa sembra esprimere in negativo. E poco importa che il miracolo si compia attraverso sei brani di malinconia infinita: ciò che deve risultare chiaro è che in essi non vi è la minima traccia di arrendevolezza o di disperazione: solo una grande, grandissima forza interiore che giunge incompromessa fino all'ascoltatore. Si prenda a esempio Sea Song, manifesto del disco e, se mi consentite, dell'arte di Wyatt tutta. Si ascolti Robert sussurrare una delle melodie più struggenti che siano mai state messe in musica, con un basso e un manipolo di tastiere e percussioni a fare da soave contrappunto alla magia della sua voce: impossibile rimanere insensibili al fascino di questa canzone, impossibile non scoprire un brivido nuovo a ogni nuovo ascolto. Rock Bottom rappresenta, insomma, una delle icone della nostra musica e se, come presumibile, lo avete già in bella mostra nella vostra discoteca, non dimenticate di tenerne una copia nella cassetta del pronto soccorso: di fronte al senso di svuotamento cui ci condanna la vita del nostro tempo qualche minuto di pelle d'oca è sempre medicina assai efficace. Solo un anno dopo, nel 1975, fa la sua comparsa nei negozi il nuovo lavoro di Robert Wyatt.
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Ruth Is Stranger Than Richard deve innanzi tutto fare i conti con la pesante eredità del capitolo precedente: bissare un capolavoro è responsabilità che può condurre alla resa delle armi e
Wyatt, persona intelligente, non ci prova nemmeno. Opera frammentaria, corale, sulla quale pesa un senso di transitorietà e incompletezza, l'album inanella comunque tracce di prim'ordine quali Team Spirit, scritta con Phil Manzanera e Bill Mac Cormick, e la lunga suite che comprende i tre episodi di Muddy Mouse/Muddy Mouth, in collaborazione con Fred Frith, intervallati dalle digressioni jazzistiche di Solar Flares e Five Black Notes And One White Note.
Dopo Ruth Is Stranger Than Richard per avere fra le mani un nuovo album ufficiale di Robert Wyatt bisognerà attendere fino al 1986. Undici anni inframmezzati da un cambio di etichetta (Wyatt lascerà la Virgin, che aveva pubblicato i due dischi del dopo Matching Mole per passare alla Rough Trade), da una pigrizia di fondo, non disgiunta da problemi di ordine più materiale, che indirizza l'artista sui formati più facilmente realizzabili e vendibili del 45 giri e dell'EP (le numerose pubblicazioni di quegli anni verranno raccolte in Nothing Can Stop Us nel 1981, Robert Wyatt 1982/1984 nel 1984 e, più recentemente nel 1999, nel box EP's By Robert Wyatt) t da un impegno politico sempre più profondo culminato, nei primi anni '80, con l'iscrizione al partito comunista britannico,
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DISCOGRAFIA ESSENZIALE
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Con i Wilde Flowers:
• Tales Of Canterbury: The Wilde Flowers
(antologia, Voiceprint 1998 LP)
Con i Soft Machine:
• Volume One (Probe 1968 LP)
• Volume Two (Probe 1969 LP)
• Third (CBS 1970 LP)
• Fourth (CBS 1971 LP)
Con i Matching Mole:
• Matching Mole (CBS 1972 LP)
• Little Red Record (CBS 1972 LP)
Robert Wyatt:
• The End Of An Ear (CBS 1970 LP)
• Rock Bottoni (Virgin 1974 LP)
• Ruth Is Stranger Than Richard (Virgin 1975
LP)
• Nothing Can Stop Us (raccolta di brani
apparsi su singoli ed EP, Rough Trade
1981 LP)
• 1982/1984 (raccolta di brani apparsi su
singoli ed EP, Rough Trade 1984 LP)
• Old Rottenhat (Rough Trade 1985 LP)
• Dondestan (Rough Trade 1991 LP/CD)
• A Short Break (Voiceprint 1992 EP)
• Floatsam Jetsam (antologia con inediti e
rarità, Rough Trade 1995 CD)
• Shleep (Rykodisk 1997 CD)
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Old Rottenhat, l'album che segna il ritorno al formato più esteso, è il lavoro più apertamente politico di Wyatt. Scarno e minimale nelle musiche (Robert fa quasi tutto da solo alle tastiere), il disco concede poco alla melodia (con la sola splendida eccezione del singolo The Age Of Self) e ancora meno alla diplomazia: feroci gli attacchi all'imperialismo americano (The United States Of Amnesia), alla borghesia capitalista (Alliance "Penso che la cosa che più ti spaventa di ogni altra/sia il sapere che hai bisogno dei lavoratori più di quanto loro abbiano bisogno di te"), agli ultimi scampoli di guerra fredda (East Timor), alla società dei consumi (The Age Of Self), alle manipolazioni degli organi di informazione (Mass Medium).
Old Rottenhat, boccone di non certo facile digestione, rimane comunque una tappa fondamentale nel percorso di Robert Wyatt: di li a poco il crollo del muro di Berlino (al 1989 risale anche l'uscita dal partito comunista, in disaccordo con le linee più morbide adottate della nuova classe dirigente per garantirne una snaturata sopravvivenza) avrebbe accentuato il carattere di mosca bianca dell'artista, orgoglioso di continuare a professarsi socialista in mezzo alla sepoltura di tante ideologie, contribuendo al suo progressivo isolamento artistico e umano. Sono cinque anni di buio assoluto quelli che preludono a Dondestan (1991), l'album del ritorno in grande stile di un artista della cui esistenza i più si erano ormai dimenticati. Dondestan (Dove sono) è un album dedicato a un generale concetto di "dissolvenza", relativo a ideologie, persone o cose che, improvvisamente, scompaiono senza lasciare traccia di una storia, la loro, che magari era perfettamente radicata nella realtà da decenni o secoli. Il lavoro, che si avvale del contributo della moglie Alfie per buona parte delle liriche, è forse quello che, per le atmosfere intimiste e la forza poetica, si collega più direttamente al mitico Rock Bottom di tanti anni prima; Robert, ancora una volta, suona quasi tutto da solo, batteria compresa, eccezion fatta per il basso del vecchio amico Hugh Hopper in Lisp Service. Tutto il disco viaggia su livelli di assoluta eccellenza, in alcuni casi (Catholic Architecture, Worship, Left On Man, Sight Of The Wind) sfiora addirittura la perfezione. I testi pescano ancora molto nel sociale (GB Jeebies è una polemica missiva a ciò che rimane del partito comunista britannico, Dondestan uno swingante tributo ai desaparecidos di tutte le parti del mondo) ma l'impeto delle esperienze precedenti viene stemperato dalla poesia di Alfie che scandaglia anche la meno frequentata sfera più intima ed emozionale.
Altri sei anni, intervallati dallo scarno e casalingo EP A Short Break (1992) e dalle rarità raccolte lungo tutta la parabola artistica di Wyatt in Floatsam Jetsam (1995), per giungere a Shleep (1997), l'ultimo magnifico appuntamento che il suo genio ci ha, al momento, riservato. Dolcemente cullato fra le candide ali di una colomba, nel bel mezzo di un soave sonno liberatore, Robert sembra invitarci dalla copertina a seguirlo nel girovagare senza meta dei suoi sogni: le musiche e le melodie che ci accompagneranno sono semplicemente quanto di meglio l'artista abbia prodotto dai tempi di Rock Bottom... Saranno con noi in questo viaggio amici vecchi e nuovi quali Hugh Hopper, Phil Manzanera, Brian Eno, Evan Parker, Paul Weller... Shleep abbandona completamente l'esasperato intimismo dei lavori precedenti a favore di atmosfere più solari e collettive, finanche l'inesauribile vena di malinconia sembra stemperata nella dolce rilassatezza che solo la dimensione onirica può dare: una brezza pungente e liberatoria che accarezza anche i testi, mai come ora disgiunti dalla realtà che attende inesorabilmente al risveglio. Dall'iniziale Heaps Of Sheeps, farcita di diavolerie Enotroniche, all'epilogo strumentale di Whole Point Of No Return una mirabile summa delle musiche wyattiane per un pugno di canzoni al di fuori e al di sopra del tempo: scampoli di jazz, blues, soul, progressive, musica latina e perfino rap, quel rap che aveva del resto già inventato Bob Dylan fin dai tempi di Highway 61 (Blues In Bob Minor); in mezzo alcune delle sue più belle canzoni di sempre: Maryan, Was A Friend, Sunday In Madrid e, su tutte, Free Will And Testament, ballata morbida e sublime. Dal suo bucolico esilio in patria, vicino a gente che non lo conosce e lo considera semplicemente un vecchio paraplegico, Robert passa le giornate a cercar di dar scacco matto ai propri ricordi, cullato dalle orchestrine jazz dei suoi calzoni corti: scarsi i segnali che giungono dal nostro mondo, qualche CD inviato dagli amici, pochi giornali e ancora meno TV. Chi lo ama è ormai abituato a questi lunghi silenzi, a questi anni di attesa prima che qualcosa o qualcuno rimetta in moto il meccanismo: sappiamo bene che ogni disco potrebbe essere l'ultimo e che, presto o tardi, la sua indomita ricerca dell'assoluto lo condurrà al suono perfetto e definitivo: il silenzio. Sono sicuro comunque che questo momento è ancora al di là da venire, ma quando mi assale lo sconforto, e ogni tanto succede, torno un attimo con i miei pensieri a quella magica notte di tanti anni fa, riprendo coraggio e mi precipito, come ogni giorno, a scrutare fiducioso l'orizzonte...
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VIAGGIO NEL LINCOLNSHIRE
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Non so esattamente cosa dire. Ho l'impressione di metabolizzare le cose importanti della mia vita solo dopo che è passato molto tempo. Robert è un personaggio straordinario, tanto quanto sua moglie Alfie, questo è certo; come è fuori dall'ordinario trovarsi in casa loro a girare un video, quello di Goccia, brano in cui Robert ha inserito la sua intensità in modo spettacolare. Ci eravamo già incontrati nel 1997, al Salone della Musica di Torino, e allora non avrei mai immaginato che gli eventi mi avrebbero portato sin qui. Di lui conoscevo l'assoluta imprendibilità, questa sfuggevole mancanza di solidità in musica.
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La musica eterea, impalpabile eppure così presente, esattamente ciò che è lui in carne ed ossa: leggero e presente. Siamo in sette. Io, Gigliola (costumista), Silvia (truccatrice), Elena (Mescal) Roberta (produzione), Francesco e Carlo (registi). Francesco Di Loreto e Carlo Bevilacqua (i due registi) conoscono molto bene Wyatt. Sono loro che hanno girato "Little Red Robin Hood", un meraviglioso documentario del 1998 a lui dedicato, quindi sanno anche che a Robert non piace molto essere ripreso. Io spero solo che la nostra presenza non risulti troppo pesante per un'entità così fragile. Ci rechiamo alla "dimora del mare", quella dove vanno Alfie e Robert di tanto in tanto, alternando un piccolo paesino tranquillo come Louth alla meravigliosa atmosfera marittima, per certi versi più elettrica. Abbiamo passato un giorno intero da loro senza mai sentirci a disagio, anche se quel giorno ero quasi tentata di trattenere il respiro per non disturbare. Lì abbiamo girato parte del video. È un'atmosfera davvero fiabesca. Siamo in una casetta di legno, nera fuori, coloratissima dentro; c'è un giardino tutt'intorno e il suono, solo il suono del mare che si infrange contro scogli che non vediamo. Non si vede il mare, perché il terreno a un certo punto si alza e fa una piccola montagnetta proprio davanti alla casa. Però si fa sentire, il mare della costa: piano piano si sta mangiando la terra. Una casetta di legno, dicevo, dipinta di nero (forse per trattenere il calore). Dentro bianca e gialla con tanti piccoli oggetti da studiare. " Un giorno sono entrati i ladri" racconta Alfie "ma non hanno portato via nulla. Sono tutte cose di pochissimo valore". Per fortuna la grazia non si misura con il denaro. Robert ama conversare e raccontare, come ama profondamente Alfie e il suo ruolo di madre e amante. Nonostante sia fine giugno fa un gran freddo. "Su questa costa volano uccelli che vengono dalla Russia" mi dice Robert e questo particolare mi fa salire un brivido lungo la schiena. Il raffreddore che a volte mi coglie ci fa interrompere le riprese, ma tra una tisana alla propoli di Alfie e qualche battuta riusciamo ad avere materiale sufficiente per il video.
Il sorriso di Robert è un sorriso autentico che si allarga fino a raggiungere gli occhi azzurri; sta lì fuori casa a salutarci con Alfìe, come quando siamo arrivati e non ci sono davvero parole per ringraziare.
...A PROPOSITO DEL LAVORO SVOLTO IN "GOCCIA"
Quattro fasi: facile, difficile, facile e difficile.
1) Facile: ascolto la canzone di Cristina notte e giorno, sobrio e ubriaco, sino a saturarmi, sinchè non mi riempie e riconosco ogni momento anche prima che arrivi.
2) Difficile: col piano + cornetta tiro giù le parti tecniche (gli accordi, la chiave, la "mappa" delle parole), il pattern di batteria, etc etc.
3) Facile: semplicemente improvviso durante l'ascolto utilizzando la voce, le tastiere, la cornetta. Questo per delle ore. Per qualche giorno. Anche qualche notte.
4) Difficile: Mi scrivo delle idee musicali che vengono da questo lavoro e poi le riduco a un minimo che ritengo efficace. Dopo questo processo cerco semplicemente di creare - ri-creare un'atmosfera di trance in studio.
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