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Intervista a Robert Wyatt : L'iconoclasta cosciente - Gong - anno 2 N. 6 - giugno 1975
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a mia prima visita a casa di Alfie e Bob aveva fruttato, per quanto riguarda la nostra rivista, i deliziosi quadretti illustrati da Alfie e i poetici testi da Rock Bottom (vedi Gong n. 2-75). Ma l'incontro aveva coinvolto anche altri aspetti, più personali, che esorbitavano da un normale rapporto di lavoro. Perciò, a parte il mio amore per la musica di Wyatt, c'era da tempo il desiderio di rivedere gli amici e di parlare con loro un po' di tutto.
Di musica, certo, ma pure di altro: che so, di politica, di paesi, di genti, di amici comuni, eccetera eccetera.
E così una domenica pomeriggio dello scorso aprile, rischiarata da un tiepido sole anglosassone, ho bussato ancora una volta alla casetta bianca di Twickenham. Gioia di ritrovarsi e subito attorno al tavolo del soggiorno a raccontarsi varie cose.
Robert era appena reduce dal primo missaggio del suo ultimo LP per la Virgin. L'album, che appare in questi giorni anche sul nostro mercato, s'intitola Ruth is Stranger Than Richard e alla sua registrazione hanno partecipato Bill MacCormick al basso, George Khan e Gary Windo ai sax, Laurie Allan alla batteria ed Eno. Era inevitabile perciò che a casa Wyatt ancora si respirasse l'aria della nuova impresa, pur senza la minima forzatura in senso promozionale-mercantilistico, mentre Alfie era tutta presa dagli schizzi-progetto per la copertina del disco. Ma è ora di far parlare Robert...
Gong: Anzitutto mi preme di sapere qualcosa di più sulla tanto decantata scena di Canterbury, quella che secondo le storie ufficiali avrebbe dato origini e vita a tutta una scuola musicale.
Robert: Be', è difficile, perché confondo sempre il periodo che va da quando ho lasciato la scuola fino a quando ho cominciato a lavorare regolarmente in un
complesso. Era un periodo molto confuso. C'è solo uno sbaglio in quello che si dice comunemente: l'idea che la città di Canterbury fosse un
ambiente stimolante. È una cittadina del sud inglese molto snob e molto provinciale, ed era piuttosto ostile e indifferente alla nuova musica o a qualsiasì cosa nuova. Ma forse, per noi era una cosa buona nel senso negativo, perché abbiamo reagito con più forza contro la vita piatta di questa città, complessivamente parecchio conservatrice. A me Canterbury ricorda soltanto alcuni dei miei compagni di scuola che avevano i miei stessi gusti. Principalmente Hugh Hopper, suo fratello Brian e Dave Sinclair. Per molta altra gente Canterbury era solo un incidente geografico. Ci trovavamo lì solo per andare a scuola prima dell'università. Più tardi mi sembrava già un posto diverso. Infatti ero molto stimolato dall'idea di lasciare Canterbury, dopo l'incontro con Daevid Allen, per andare a Parigi, a Londra, a Maiorca e incontrare molta gente nuova.
Daevid mi ha insegnato a non preoccuparmi degli esami a scuola e roba del genere, perché c'erano tante altre cose da fare. Insomma per me Canterbury era come una prigione dalla quale siamo riusciti a scappare. Non è certo un posto di cui sento la nostalgia.
Daevid era più vecchio di noi e aveva già trascorso degli anni a sviluppare le sue idee. Quando io l'ho incontrato, avevo soltanto l'esperienza della scuola e dei miei genitori. Allora il mio interesse artistico era piuttosto
passivo. La mia idea dell'arte era di guardare i
quadri, leggere i libri e ascoltare i dischi. Ma Daevid mi dimostrò l'ovvio, che cioè l'arte non sta nel leggere ma nello scrivere, non sta nel
guardare i quadri ma nel dipingerli, non sta nell'ascoltare musica ma nel registrare
nastri. È una posizione molto più attiva, molto diversa dal processo di educazione
normale. Lo scopo di quel tipo di educazione è
di impaurirci con i grandi personaggi degli ultimi due-trecento anni, per impedirci di fare anche noi qualcosa di creativo. E per me Daevid era una figura molto liberatoria. Voglio dire che
gli placeva il jazz ma non si preoccupava se non poteva suonare come Charlie Parker, gli piaceva dipingere ma non si preoccupava se non poteva dipingere come Paul Klee. Aveva molto coraggio
e questo è davvero importante.
Gong: Quando hai iniziato a suonare, quali erano i
generi di musica che t'interessavano
di più?
Robert: Mio padre mi aveva allevato con la musica europea del ventesimo secolo e anche con un po' di jazz.
Credo che nel periodo in cui incontrai Daevid fossi più interessato al jazz e alla pittura. Ma a quel tempo mi sembrò più interessante scegliere
la musica, perché avevamo in mente tante cose
che nessuno aveva ancora fatto nella musica, mentre nella pittura c'era già tanta gente che sperimentava le nostre idee. Mi piacevano la
musica e la pittura ugualmente.
Ma non riuscivo a immaginare che cosa di nuovo
potessi fare nella pittura.
Mentre nella musica ero affascinato da diverse cose, dal jazz a Ray Charles, e potevo
prevedere varie possibilità interessanti nell'usare molti elementi diversi di molte musiche diverse. Ecco perché questa divenne così importante per me.
Gong: Oggi si parla molto di musica di gruppo. Pensi che la musica che nasce dai gruppi sia molto più proficua di quella che deriva dai singoli musicisti?
Robert: Credo che sia una grandissima limitazione l'idea che le nuove proposte debbano per forza venire dai gruppi. Prendiamo il caso della prima Mahavishnu Orchestra. Il suo successo commerciale stava proprio in un fatto di limitazione iniziale dei singoli. Ma mi pare che tutti quelli che suonavano nei dischi della Orchestra suonassero meglio prima di entrare nella Mahavishnu. McLaughlin suonava meglio con John Surman o con Miroslav Vitous. E anche Billy Cobham lo preferivo prima. Forse perché era più semplice da seguire. Uno riesce pure a capire le pressioni che portano alle limitazioni della formula, alla formazione di un gruppo rock, per fare più soldi, per suonare in tournée...
Ma è pur sempre una formula e, quando la impari, ne conosci anche le possibilità e allora lo spirito dell'avventura sparisce. Ti rimane solo da decidere se questo è fatto bene oppure no. È soltanto un fatto di artigianato e niente di più. Ti assicuro che oggi a un Billy Cobham preferisco di gran lunga Laurie Allan.
Gong: Qual era il tuo approccio alla batteria? Hai mai pensato a diventare un virtuoso?
Robert: No, non sono mai stato un batterista puro. Mi interessava di più la forma complessiva della musica, la sua organizzazione, l'arrangiamento dei vari pezzi, insomma. La batteria era solo il suono che facevo io e qualche volta era pure piacevole smettere. Ci sono dei bei pezzi anche senza la batteria e io ero avvantaggiato da questo fatto, mentre gli altri musicisti dovevano suonare sempre. La batteria è uno strumento molto comodo perché una sola persona può contemporaneamente controllare molti suoni. Ma mi interessava piuttosto l'arrangiamento dei pezzi, l'equilibrio fra improvvisazione e arrangiamento, la possibilità di combinare pezzi strumentali con canzoni. La batteria era solo uno degli strumenti, non era una cosa in se stessa. Certo mi piacciono alcuni soli di batteria. Naturalmente mi piace Elvin Jones: se più gente suonasse come Elvin Jones, sicuramente la batteria mi interesserebbe di più. Ma purtroppo non si trova facilmente chi suona come Elvin... Lui è il più grande batterista che abbia mai sentito: l'ho trovato sempre più interessante di quanto non sia mai stato un Billy Cobham. Ancora oggi preferirei ascoltare qualcosa come Africa Brass di Coltrane che qualsiasi disco della Mahavishnu.
Gong: Come vedi la situazione musicale attuale rispetto a quella degli anni '60? Molti oggi parlano di crisi, di stasi creativa, di riflusso, di supercondizionamento industriale...
Robert: in questo momento ci sono due direzioni quasi opposte che sono molto forti. Una comprende musica d'avanguardia, idee d'avanguardia, ricerca pura. Mentre l'altra è più legata all'idea del socialismo: la musica per la gente, fatta dalla gente. Questo è il contributo della cultura popolare. Al contrario, certa gente cosiddetta d'avanguardia di 10-15 anni fa aveva idee completamente fasciste per quanto riguarda la musica popolare. Penso che ciò sia molto sbagliato. Ma ora c'è il grande problema di come capire e di come utilizzare questa musica: cioè musica da cantare e da ballare, senza fare dello snobismo. Nello stesso tempo molti di quelli che fanno musica popolare trovano il tempo di ascoltare, per esempio, anche parecchie cose attuali della musica di avanguardia europea e le utilizzano nella loro musica secondo il grado di comprensione che riescono a maturare. È insomma un periodo in cui molta gente impara da altri, come anni fa non si faceva. Oggi molti di quelli che io conosco si sentono spesso poco sicuri, ma penso che essi non debbano dare troppo peso allo scoraggiamento, perché questo è un periodo molto importante e stimolante, che è venuto fuori proprio da tanta precedente confusione. Può darsi che oggi ci siano pochissimi capolavori di perfezione, ma è più importante l'evolversi di tutta la musica nel suo complesso. Gente di idee e tradizioni tra le più differenti si incontra e naturalmente è una situazione caotica, un po' pazza. Ma credo sia una fase necessaria.
Gong: Ma non ti sembra che ci sia troppa gente ora che approfitti di questa situazione confusa, per ingannare gli altri a proprio vantaggio?
Robert: È la vita... Voglio dire che se una città viene bombardata, c'è molta gente che ne approfitta e fa dei saccheggi. In un disastro è sempre possibile che succeda così. In tutte le rivoluzioni ci sono un mucchio di comportamenti scorretti: fa parte dell'insieme. Non c'è da preoccuparsene più di tanto, perché gli esseri umani sono spesso degli animali molto cattivi. Però non mi preoccupo di essere così pessimista.
Chi si preoccupa si aspetta che l'uomo sia un animale meraviglioso, molto di più di quanto io mi aspetti. Non penso neanche che noi uomini siamo gli animali più intelligenti su questo pianeta. Forse siamo i più furbi, ma non siamo certo molto morali. Penso, comunque, che la cosa più importante sia la ricerca.
Gong: Qual è la tua posizione politica, anche in rapporto alla tua musica?
Robert: Be', le canzoni ingannano un po'. In un certo senso trovo che sono molto più cinico di uno come Randy Newman. Perché lui presenta l'altra faccia, la parte più brutta della natura umana, e va bene. Ma lui lo fa perché pensa di migliorare le cose, mentre io non ho nemmeno quella speranza. Trovo solo abbastanza speranza
per scrivere. Ma non sono esattamente un cinico, perché è un termine più negativo di quello che io sento dentro. Penso che sia arrogante credere che, dopo la rivoluzione o dopo che abbiamo sistemato il mondo per il meglio, le cose saranno completamente risolte, perché gli uomini sono potenzialmente buoni. Non vedo una ragione per crederci. Non si può avere tutto.
Se si riesce a creare qualche oasi di felicità, sarà bellissimo. Sono sempre contento quando le idee del socialismo si
propagano nel mondo. Mi meraviglia che gli esseri umani, solitamente così crudeli, l'abbiano pensato e organizzato così bene. È più un coinvolgimento emozionale che razionale per me. Mi sembra che il socialismo dia più possibilità a un maggior numero di gente di avere più dignità che non altri sistemi. Allora penso di essere un socialista. Ma non sono un idealista. Penso che la cosa più interessante di questo secolo a livello generalizzato sìa l'allargamento del voto democratico, oppure il nuovo peso dei sindacati. Ma vedo tutto ciò da una certa distanza, non lo vivo dall'interno. Non sventolo la mia bandiera rossa, dicendo «andiamo!» o cose del genere, perché sarei ugualmente contento di vedere gli esseri umani sostituiti dal mondo animale.
Gong: Qual è, secondo te, il ruolo di un artista nella società odierna?
Robert: Penso che nelle arti esistano un po' tutti i ruoli sociali. Ad esempio ci sono quegli artisti che vogliono mantenere l'idea dell'eroe individuale superiore agli altri. Ma quest'idea è proprio il contrario di qualsiasi forma di socialismo: mi sembra una farsa. In realtà loro fanno solo ciò che la comunità gli richiede. Non penso comunque in genere che noi musicisti abbiamo molto controllo sulla musica: facciamo quello che vuole la società. Molta gente pensa che l'artista sia come il custode dello spirito della comunità. È vero solo in parte. Il tuo ruolo viene imposto dalla gente che ti sta intorno. Comunque credo sia molto importante che uno si senta libero di scegliere e che possa dare il suo contributo personale. Obbiettivamente non è una buona giustificazione. Certe volte alcuni dei più importanti capolavori provengono da situazioni sociali tra le più contraddittorie e molta arte noiosa viene dalle situazioni sociali più avanzate. Per esempio, l'arte cinese era forse molto più interessante prima che venisse il comunismo. Ma se dovessi scegliere, certo sceglierie Mao Tse Tung e molta arte «brutta»...
Gong: Parliamo ora delle influenze nella tua musica: per esempio, riconosci di essere stato influenzato dall'Arte-Dada?
Robert: Sì, credo di essere stato influenzato dalle stesse motivazioni che mossero i dadaisti. Essi erano cresciuti in una società in cui una grande importanza era attribuita al comportamento razionale, al potere della logica, all'importanza della proporzione matematica. Ma forse la mente umana non funziona così. La mente è più anarchica di
quanto le sia stato concesso dalla cultura europea fino a questo secolo. Penso che le stesse pressioni, che spinsero al movimento dada, oggi spingono la musica a varie culture lontane dalla tradizione europea. Per capire ciò che hanno fatto i dadaisti, è necessario comprendere quali regole hanno infrante. Hanno dimostrato che alla mente umana deve essere data maggiore libertà di quanto non consentisse la cultura europea. Ma ora che accettiamo questo dato come vero, è più necessario, spero, essere coscientemente iconoclasti.
Gong: Ci sono altre influenze nella tua musica?
Robert: Torno sempre alla stessa influenza fondamentale che sono i neri d'America. La cosa più interessante accaduta in questo secolo, dal punto di vista culturale, è stata l'esplosione della cultura nera dall'interno dello sfondo provinciale e conservatore dei pionieri bianchi in America. L'idea che i neri usino gli strumenti europei è per me ancora la cosa più stimolante. Quello che Cecil Taylor riesce a fare con il pianoforte (così lontano dall'uso previsto da chi in Europa aveva disegnato lo strumento) trovo che sia una delle cose più eccitanti.
Questo succede quando si mescolano insieme le varie culture. In questo momento io sto imitando coscientemente alcuni «trucchi» del jazz. Nel mio ultimo LP, una facciata è interamente dedicata all'uso cosciente delle influenze del jazz. In fondo è una ricerca per darmi più coraggio a trovare cose in me stesso, almeno più di quanto ci riescano altri stimoli.
Gong: Come giudichi le concezioni di musicisti come Terry Riley, Philip Glass o La Monte Young?
Robert: Trovo che hanno la stessa posizione che avevano i dadaisti. Sono molto coscienti di distruggere e ricreare allo stesso tempo la tradizione europea. In un certo senso, però, mi pare che alcuni abbiano ancora troppo rispetto per questa cultura. Ad esempio uno come Stockhausen sembra sentirsi in concorrenza con gente come Wagner o Beethoven. In Europa esistono vari metodi di far musica: hai il compositore, il musicista e il direttore d'orchestra, che fa una specie di mediazione tra i due. Gente come Cage e Young ha sperimentato la possibilità di dare più libertà al musicista come compositore. Sono molto fieri delle nuove scoperte che hanno fatto in campo musicale. Ma Miles Davis questo lo stava facendo parecchio tempo prima. Miles sa esattamente come creare certe situazioni attraverso la combinazione perfetta dei membri di ogni nuova formazione. Secondo me Miles è più avanti. L'avanguardia in Europa non si fida abbastanza della sua facoltà d'intuito. Credono ancora nell'idea del pensiero concettuale e razionale. Forse è arrogante parlare così, ma è la mia reazione a tutto quello che sento in giro. Se dovessi parlare di un grande compositore all'avanguardia, direi subito Davis o Mingus. Il modo in cui hanno combinato tutte le varie qualità delle diverse musiche, e hanno sviluppato la combinazione compositore-musicista, è fantastico.
Gong: Di tutte le esperienze che tu hai fatto con i gruppi, dalla Soft Machine al Matching Mole, quale ti ha aperto più la mente?
Robert: Su tutto quello che ho fatto negli ultimi dieci anni, nella ricerca di scoprire le relazioni migliori fra la composizione e il modo in cui la musica viene suonata, lavorando con altra gente o solo, le mie conclusioni sono molto semplici. Più certo sei di come la musica debba venir suonata, meno musicisti sono disposti a lavorare con te, perché diventi più sicuro delle cose che vuoi. Adesso lavoro con tre o quattro musicisti e abbiamo molto in comune. Il cambiamento da un gruppo a un altro è stato solo un processo di ricerca di situazioni nelle quali lavorare. Certo, molto dipende dal trovare gente con cui comunicare. L'unica difficoltà sta nel fatto che più strana è la musica, meno gente riesci a trovare, sia come pubblico che come musicisti con cui lavorare. Molta gente oggi pensa che la musica si sta sviluppando nei gruppi. Ma non sono molto convinto che il gruppo come unità di lavoro continuativa sia la risposta ideale per tutti i nuovi problemi della musica. Io credo che, tutto sommato, formare un gruppo fisso risolve certi problemi, ma impone enormi restrizioni alle idee personali dei singoli. In questo momento, quasi tutti quelli con cui lavoro sono gente che generalmente non suona nei complessi. Gary Windo, per esempio, non riesce ad adattarsi a nessun gruppo. George Khan, il tenore, è stato per anni uno sperimentatore, ma non ha mai trovato un gruppo che lo soddisfacesse. E così è stato per Laurie Allan: il suo temperamento non gli ha mai permesso di inserirsi stabilmente in un gruppo. Così è anche per Bill MacCormick e per Eno.
Gong:
Com'è andato finora Rock Bottom?
Robert: Penso che stia andando bene tutt'ora. Ha venduto dappertutto più di quanto mi aspettassi. Ero contento di fare quel disco e c'era gente interessata a comprarlo già prima che lo terminassi. Infatti c'è molta più gente adesso interessata alla mia musica di quanta ce ne fosse all'epoca di Matching Mole. In un certo senso è una bella sorpresa, perché non me l'aspettavo proprio. Forse la stampa ora è più interessata di quanto lo fosse prima.
I giornalisti della stampa specializzata una volta erano molto più conservatori e tradizionalisti. Ma non conosco di sicuro quel successo che hanno certi gruppi rock. Il mio, probabilmente, è solo un piccolo successo.
Gong: Mi pare che questo ultimo tuo LP sia meno unitario di Rock Bottom, meno sereno...
Robert: Forse perché sono diventato più di cattivo umore, meno tranquillo. Rock Bottom era il prodotto di molte frustrazioni precedenti, di certi tentativi di creare alcune cose... Era il risultato di un'unica linea di pensiero. Ma questo disco è molto più sperimentale: mi inserisco in situazioni piuttosto sconosciute per me. Stavolta ho rischiato dì più.
Gong: Hai qualche progetto di concerto dal vivo prossimamente?
Robert: Non me lo ricordare, ne ho uno nella prima metà di maggio a Parigi al teatro degli Champs-Élysées: devo essere pazzo! Non ho la minima idea di cosa fare in pubblico. Tutte le mie idee oggi sono basate sul tono dì voce basso, non mi piace gridare. Prima tutta la mia musica in pubblico era concentrata sulla batteria. Ma adesso canto solo e questo mi rende molto nervoso, perché c'è questa pressione a essere spettacolare in pubblico, eccitante e roba del genere. Io non suono più così. Non mi piacciono questi grandi concerti pop con immense folle di giovani: mi piace il piccolo club con cinque ubriachi o posti simili. A Parigi sarà un concerto degli Henry Cow e io canterò solo alcuni pezzi con loro. Sono nervoso perché, quando canto, non è per cantare in pubblico. Per me il canto è qualcosa che faccio con il pianoforte. È un problema di piccoli dettagli, di intonazione, della frase esatta, eccetera. Tutto l'insieme in pubblico è solo un enorme gesto, e io non sono Stevie Wonder. Non riesco a fare tutto quello che fa lui. Sento che ci vuole qualcosa di più drammatico in un concerto. Mi sento stupido io sul palcoscenico.
Gong: Perché hai scelto Parigi?
Robert: Non ho scelto: mi hanno chiesto, implorato molte volte di fare un concerto lì. Poi hanno scoperto che avevo cantato con gli Henry Cow in pubblico e mi hanno invitato insieme a loro. Era un trucco! Ho dei nastri di quel concerto: sono terribili, cantavamo molto male... Sono davvero pazzo!
Giacomo Pellicciotti
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