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Happy New Ear! E un ascolto felice... Robert Wyatt Intervista - Instrumenti Musicali - # 249 - gennaio 2002
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Quella tastiera aveva un suono particolare, con un leggero effetto di vibrato. Cominciai a scrivere le canzoni di Rock Bottom. Quello è stato un po' l'inizio di tutto. Il contesto in cui mi trovai a concepire quel disco fu completamente diverso da tutto ciò che avevo fatto in precedenza. Stavo preparando il materiale per il terzo disco dei Matching Mole e sarebbe stato davvero ottimo, quando ebbi l'incidente che mi spezzò la schiena costringendomi su una sedia a rotelle. Così dissi al gruppo di non aspettarmi, perché loro dovevano continuare a lavorare. La strada era un po' segnata, perché già sul primo disco dei Matching Mole ero andato in studio e avevo registrato per conto mio delle tastiere. Mi piaceva davvero suonare le tastiere, cosa che naturalmente non potevo fare quando suonavo la batteria. Registrare Rock Bottom in un certo senso mi liberò, potevo suonare le percussioni se volevo, ma fondamentalmente si trattava di tastiere e voce e potevo controllare esattamente la relazione fra le diverse parti armoniche. Lo strumento che utilizzo davvero però è lo studio di registrazione. Ancora prima avevo registrato delle session per John Peel e avevo pensato che potesse essere una sfida interessante quella di entrare in studio senza alcuno strumento. Niente gruppo, niente musicisti, niente strumenti. Suonando solo quel che avrei trovato nello studio. Ne venne fuori una sessione di circa venti minuti. Era per me ormai maturo quel modo di lavorare.
SM Spesso i tuoi dischi sono diversi fra loro perché caratterizzati proprio da una certa libertà. Lunghe suite oppure canzoni pop vere e proprie. Come pensi alla forma dei tuoi album a questo rispetto?
RW Ci sono almeno un paio di dischi che non erano originariamente progettati per essere delle raccolte. Per esempio Nothing Can Stop Us o più recentemente cose come il cofanetto pubblicato dalla Rykodisc. Questi brani erano stati concepiti singolarmente o almeno a coppie. E sono stati messi insieme dalla casa discografica perché si trovassero in una forma più stabile. Ma quando compongo, e questa è una cosa in cui sono stato influenzato da una certa ideologia improvvisativa, dalla free music che ho ascoltato sin da ragazzo, la forma nasce in una fase successiva. Nel mio caso è stato l'opposto della scrittura conservatoriale in cui la forma viene prima della composizione, lo non posso scrivere in quel modo. Anche dal vivo una certa forma viene data naturalmente, c'è una specie di evento organico, dall'inizio alla fine, non puoi suonare per un'ora di seguito, e quindi una certa forma è necessaria. Nel mio caso invece trovo quasi intimidatorio pensare prima alla forma. Così tendo principalmente a preoccuparmi del fatto che ogni momento sia giusto. E se sono sincero riguardo a quel che sto facendo, allora ci sarà una consistenza finale nella sequenza musicale. La forma emerge autonomamente alla mia percezione, anche sorprendendomi. Lavoro un po' come un animale, non sapendo esattamente cosa sto facendo fino a che questa forma si evidenzia.
SM Quando hai cominciato a lavorare in questo modo? Perché non si trattava di una consuetudine nella scena jazz, sulla quale ti sei formato.
RW Penso si sia trattato soprattutto di necessità, quando iniziai a scrivere "Moon in June" con i Soft Machine. Gli altri componenti del gruppo non erano a loro agio e potevo sentire che non capivano realmente perché facessi le scelte che stavo facendo. Inoltre è difficile cantare e suonare le percussioni allo stesso tempo. Cosi mi convinsi che sarebbe stato meglio se io avessi suonato tutte le parti. Nello studio c'era un Hammond, un basso... Tolsi così gli altri musicisti e me stesso dall'imbarazzo di lavorare controvoglia. Non sono la persona giusta per dire agli altri quel che devono fare.
SM Ma poi nei tuoi dischi non hai rinunciato a impiegare strumenti di ogni genere: hai usato anche la tromba, il violino e altro ancora... Come scegli di usare certi strumenti invece di altri?
RW Non penso tanto in termini di strumentazione, ma di persone con le quali ho voglia di lavorare. Mi piace pensare a una buona compagnia che lavora per il disco. Per esempio con gli Henry Cow, il motivo per cui c'era Fred al violino o alla chitarra era semplicemente perché si trattava di lui, più che per lo strumento. C'erano centinaia di fantastici musicisti, ma cercavo quel particolare spirito che Mongezi Feza sapeva infondere al disco. Se non ci fosse il trombone di Annie Whitehead non ci sarebbe probabilmente alcun trombone sul mio disco. A volte mi capita di sentire musicisti chiusi in una particolare condizione, come è successo a me quando suonavo la batteria. E so che potrebbero fare cose diverse se solo si cambiasse il contesto in cui agiscono. Mi stuzzica l'idea di quel che potrebbe accadere in tal caso. Ma come ho già detto, spesso tutto comincia dal fatto che apprezzo le persone, prima che i musicisti. Non si tratta spesso di musicisti particolarmente abili dal punto di vista tecnico, ma di gente che conosce solo tre o quattro accordi rock. Altre volte è gente che non viene dal rock e dal folk. Tutto questo non ha importanza per me. Personalmente conservo una sorta di mentalità pop, per cui magari un po' in ombra alla base della mia musica ci devono comunque essere un ritmo, un'armonia... Gli elementi basilari della musica. Il modo in cui ci relazioniamo tra musicisti è del tipo "è in Si maggiore o in Si minore?" oppure "è in quattro quarti o in cinque quarti?". Sono sempre questi gli elementi base che tutti noi abbiamo in comune. Deve funzionare così, se fai un assolo hai bisogno di sapere quali note stanno alla base, quindi, alcuni suoneranno entro i normali parametri dell'accordo, mentre altri come Evan Parker o Mongezi Feza faranno riferimento all'intera idea armonica. Dipende dal tipo di musica che ritieni appropriato in quella particolare situazione.
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SM A volte inizi a lavorare con la musica, altre volte si direbbe che il tuo lavoro su una canzone abbia inizio da un testo o da un'immagine che vuoi rendere musicalmente. Sono modi diversi di lavorare, naturalmente...
RW Per me è sempre normale iniziare con la musica, cercando poi le parole che sembrano meglio adattarvisi. Se fossi un pittore la musica sarebbe il paesaggio, che si tratti di sabbia, campi, qualunque colore del cielo... E quando si tratta di popolare quel paesaggio ecco la scelta delle parole. Ho imparato lavorando con Michael Mantler e con Carla Bley. Come loro prendono un testo e lo utilizzano in musica. Questo è molto comune nell'opera lirica, per esempio, dove la composizione parte da un libretto. Nell'opera inglese invece il risultato è sempre troppo recitativo, nel tentativo di illustrare il testo. Per questo credo che l'opera in Italia o in Germania, sia più potente. In Inghilterra è come se non si capisse che le parole devono essere funzionali alla musica, tutto deve servire alla musica. Penso sia una cosa che Miles Davis ha detto: "La musica è molto gelosa". Non le piace essere trascurata.
SM Vuoi parlarmi della tua collaborazione con Cristina Donà?
RW Certo. Sono stato invitato al Salone della Musica di Torino dove ho avuto modo di vederla esibirsi. Questo è normale, come sai. Capita di vedere artisti che non ti colpiscono particolarmente. Ma invece lei fu... Non so, completamente fuori dal genere rock femminile alla moda, sai cosa intendo. Non era quel tipo di ragazza arrabbiata come tante artiste americane o inglesi. C'era una sorta di fascino in quello che faceva, non era di quelli che sembrano voler sembrare più punk di un punk e via dicendo. Era così naturale. Lo stesso la sua musica. Non potevo capire bene le parole, ma mi sono piaciute le sue canzoni. Ogni canzone sembrava avere una sua ragione e lei canta molto bene, in un range dinamico molto ampio: può gridare al momento giusto ma sa anche sussurrare. È davvero un'ottima musicista. E per quanto riguarda la mia partecipazione al suo disco, avrei potuto aggiungere qualcosa a più d'una canzone, ma questo avrebbe aggiunto solo del rumore. Nel brano "Goccia" contenuto in Nido ho trovato invece che ci fosse dello spazio perché io potessi dare un contributo con ulteriori idee melodiche restando parte dell'intero contesto.
SM E poi c'è stata l'esperienza del Meltdown Festival...
RW C'è un fantastico piccolo gruppo di persone che lavora a quel Festival e che fa il lavoro più duro. L'idea del Meltdown è quella di invitare un direttore artistico diverso ogni anno. Così sono stato chiamato per l'edizione 2001 e sono stato felice di invitare musicisti che non avrei mai pensato di poter chiamare altrimenti, come Max Roach per esempio. Ma la mia principale preoccupazione è stata che non fosse un festival internazionale finto dove tutti devono per forza parlare inglese. Volevo che fosse meno asettico, più aperto alle diversità. Ecco perché il festival è stato fantastico, per me. Vedere musicisti palestinesi e israeliani sullo stesso palco insieme è stato molto commovente. Veder suonare rifugiati turchi e somali è stato più importante ancora che assistere agli eventi maggiori del Festival. Ecco quel che mi interessa, non guardare sempre verso ovest ma anche verso est.
SM Com'è nato il progetto Soupsongs ?
RW Mi è stato proposto di lavorare a una particolare esecuzione delle mie musiche, ma ho detto che preferivo starmene nelle retrovie, cosi si è pensato di proporre ad altri di arrangiare le diverse melodie. Inizialmente ho pensato a musicisti che già avevano fatto una cosa simile, come è avvenuto in Austria. Ho pensato anche ai musicisti italiani che avevano collaborato al disco The Different You. Ma il piccolo budget a disposizione non permetteva di chiamare musicisti dall'estero e pagare loro il viaggio e quant'altro. Dunque abbiamo deciso di coinvolgere musicisti britannici, come Annie Whitehead che aveva già suonato anche in Shleep e altri musicisti che normalmente suonano cose diverse ma che sapevo potessero eseguire le mie musiche. Sono stati invitati a eseguire queste musiche al London Jazz Festival e quindi in altre occasioni fino alla registrazione pubblicata su etichetta Voiceprint.
SM E ora possiamo aspettarci un tuo nuovo disco?
RW Al momento è appena terminato l'editing di due mie canzoni per un film francese, intitolato Il popolo migrante, una colonna sonora con un paio di mie canzoni e una di Nick Drake. I distributori giapponesi vogliono poi pubblicare su vinile i miei CD e farne un'edizione speciale. I giapponesi sono molto divertenti in questo, cercano di fare l'opposto di quel che si fa di solito. Mi hanno chiesto di aggiungere un paio di canzoni inedite, così ho registrato qualcosa di breve qui a casa.
SM Perché non lavori a qualche progetto dal vivo?
RW Perché ho paura del palcoscenico. Quando stavo dietro la batteria mi sentivo più protetto. Come una cassiera dietro la cassa in un negozio. Ma le ultime due volte che sono salito su un palco stavo quasi per svenire dalla paura. È difficile da spiegare. A volte usano mie musiche per installazioni, com'è avvenuto a Lione recentemente. Ma non riesco davvero a stare davanti al pubblico. È come quando c'è qualcuno che disegna o fa dei ritratti per strada e la gente gli sta dietro le spalle per guardarlo lavorare. Mi farebbe perdere tutta la concentrazione e credo che in parte il problema stia anche nella mia scarsa disinvoltura tecnica. Quando suoni dal vivo ogni cosa è il primo tentativo. In studio mi ci vogliono a volte quattro o cinque prove prima di ottenere la giusta interpretazione. E poi l'inizio va bene ma non la parte finale, e così via. Non ci sono cose che trovo davvero facili da fare nel mio lavoro, e preferisco farle da solo. E poi c'è la difficoltà pratica di andarsene in giro su una sedia a rotelle, prendere l'aereo...
SM Diversamente da te, molti artisti agiscono in un alone di ambiguità senza assumersi responsabilità sulla qualità del proprio lavoro. Altre volte il pubblico non coglie completamente il significato del lavoro di un musicista...
RW Non spetta a me dire agli altri quel che devono o non devono fare. Personalmente credo di non guardare troppo fuori di me in quello che faccio. Mi piace fare cose che mi vengano comode e sono il primo ascoltatore della mia musica. Se quel che faccio ha un senso per me, spero che possa averlo anche per gli altri. Non credo di dovermi troppo preoccupare di quel che il pubblico comprende della mia musica. Sarebbe troppo faticoso. Il pittore Mark Rothko si infuriò parecchio quando una sua grande tela venne acquistata per la sala conferenze di una grande compagnia di affari. Come molti artisti della sua generazione, temeva di essere usato dall'establishment economico. Così rifiutò di vendere l'opera asserendo che era stata realizzata solo per gente vera. Capisco perfettamente queste ragioni, ma alla fine se l'artista mette nella propria opera tutte le informazioni necessarie e corrette alla sua comprensione, lì termina la sua responsabilità. E se il pubblico non comprende a fondo, è responsabilità del pubblico, non più dell'artista.
Claudio Chianura
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