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 Robert Wyatt La Voce Sottile della Talpa Dada - Classic Rock El Visionari del Rock - 2017









Généalogie

Di tutte le genealogie che attraversando la storia del rock ne segnano i corsi e gli snodi, quella del rock di Canterbury è una delle più importanti, vitali, intricate, divertenti. Qualcosa di simile accadrà poi, in un altrove e in un altroquando, a Louisville, nel Kentucky, alla fine degli anni Ottanta, per il post-rock di matrice punk. Lì tutto era cominciato con gli Squirrel Bait, una band di poco più che adolescenti. A Canterbury, nel Kent (Inghilterra: niente a che vedere col Kentucky), trentamila anime adagiate sulle rive dello Stour, cento chilometri a sud-est di Londra, nella prima metà dei Sessanta c’è fermento. È il fermento del movimento beat, del movimento underground, del movimento studentesco: insomma, del Movimento, che mescola assieme, inscindibili, letteratura, arte, politica e vita. Anche qui i nostri eroi sono poco più che adolescenti. Dei ragazzini, a dirla tutta. Tutti tranne uno, che è un po’ più vecchio ed è ammantato di un’aura esotica, di un’aria algida e sardonica, allo stesso tempo. È un tipo misterioso, un po’ figura paterna e un po’ cialtrone, è uno che ci è e che ci fa, una specie di guru venuto da lontano, per fare proseliti. Si chiama David, ma presto aggiungerà per vezzo distintivo una “e” al nome, diventano Daevid Allen. Australiano, chitarrista, poeta, beatnik, intellettuale do-it-yourself, nel 1960 prende il fagotto e si mette a viaggiare in lungo e largo per l’Europa. Arrivato in Inghilterra si sente a casa sua, incontra William S. Burroughs, si mette a fare il talent scout e fonda un power trio free jazz – siamo nel 1963, siamo a Londra – assieme a due che hanno sedici anni: Robert Wyatt (che all’epoca si chiama ancora Robert Ellidge e che ha conosciuto Allen perché i suoi genitori gli avevano affittato una camera vonella loro casa di Canterbury) alla batteria, e Hugh Hopper (compagno di scuola di Robert) al basso. Sedici anni.

   


Quello che sorprende non è tanto che in breve tempo il Daevid Allen Trio non riceva più richieste per suonare nei club, quanto che ne abbia ricevuto una, la prima. Siamo in piena epoca surf e beat, il free è ancora un non-linguaggio acerbo e per iniziati, mentre nella praticamente unica testimonianza che ci resta della cosa, Live 1963, registrato al Marquee londinese e pubblicato esattamente trent’anni dopo, quello che sentiamo è un tipico esempio di “too much, too soon”, di “no commercial potential” (oltre che, certo, di “velleità che non corrispondono esattamente alle capacità”). Ascoltando, si capisce molto bene perché il tutto durerà giusto una manciata di esibizioni, spalmate nell’arco di una manciata di mesi appena. In queste smozzicature di free jazz che sembra suonato con dei giocattoli e da dei bambini, sentiamo un po’ della chitarra aliena di Derek Bailey (che però in quel 1963 esordiva in un jazz ancora tradizionale con i futuri avanguardisti Tony Oxley e Gavin Bryars), e addirittura già Captain Beefheart, la No New York dei DNA, o il dada bruitiste degli Half Japanese. E anche il antautorato “no-folk” di Daniel Johnston, se questi lacerti devono servire da tappeti per gli sbraitamenti beat di Allen.

 

Too much, too soon… Troppe visioni profetiche. A un certo punto, verso metà disco, nella jam si affaccia ospite il pianoforte di un altro ragazzo di talento, si chiama Mike Ratledge, ha diciott’anni, è un altro compagno di scuola di Wyatt e Hopper. Il gruppo finisce come deve finire e Allen se ne ritorna a Parigi, dove già era passato approdando dalla sua Melbourne e dove aveva già avuto modo di fare cose con Terry Riley (perché ognuno si sceglie i compagni di merende che si merita). Wyatt e Hopper, ancora sulla scia, estetica e fisica, dello zietto australiano (lo raggiungono a un certo punto a Maiorca, dove Wyatt prende pure lezioni di batteria da un vecchio jazzista spagnolo), mettono in piedi una band che più che una band è un collettivo, che più che un collettivo è un’idea, un’idea chiamata Wilde Flowers. Sono loro due e altri compagni di scuola e d’infanzia: il fratello di Hugh, Brian Hopper, e due ragazzi che si chiamano Richard Sinclair e Kevin Ayers. Ascoltare le registrazioni, anche qui, sbucate fuori ufficialmente solo trent’anni dopo, sparse tra la raccolta di demo e inediti THE WILDE FLOWERS e i quattro volumi di CANTERBURIED SOUNDS, fa un effetto davvero strano: aspri e allo stesso tempo succosi come frutti acerbi, vi ascoltiamo già tutti i tic e le firme della cosa che sarà poi il nostro Wyatt. C’è la sua voce elegantemente sgraziata, sottile, ondivaga e perturbante, c’è il gusto insistito per l’irregolarità di forme e strutture, per la diluizione delle atmosfere, per una certa jazzizzazione del pop, per lo schizzo folle e improvviso. Soprattutto, rispetto alle tracce superstiti dell’Allen Trio, che in confronto sembrano punk-punto- e-basta, c’è in nuce tutta l’agrodolce fragranza delle migliori cose del primo grande frutto maturo dell’estro wyattiano, i Soft Machine.


Epicentro, assieme ai Caravan, e anche loro gemmazione di questi benedetti Wilde Flowers, della cosiddetta scena di Canterbury (etichetta che viene stiracchiata fino a includere Comus e Henry Cow, che di Canterbury non erano, ma che dei canterburiani erano amici e ne condividevano l’estetica), i Soft Machine hanno rappresentato in maniera quasi dizionariale la musica che piaceva, soprattutto ai giovani europei colti e ribelli, ma di educate letture, educate visioni ed educati ascolti, alla fine degli anni Sessanta. I Soft Machine erano uno di quei nomi, giusto per dire, sempre citati da Riccardo Bertoncelli, esempio par excellence di liberazione e di musica totale, di sperimentazione, di avanguardia pop: era la loro una “musica senza etichette”, “uguale a se stessa e basta”, una “musica per morire completamente”. È attraverso i vari Bertoncelli di mezza Europa che i Soft Machine sono entrati nell’immaginario culturale di un’epoca, piccoli eppure grandissimi, messi come sotto una lente d’ingrandimento, radiografati, vagliati al metal detector. E Robert Wyatt ne era il punto focale. Sintomo e sintesi di un’epoca, anche nella loro parabola più tarda e meno celebrata, avendo rappresentato alla perfezione la transizione verso l’elefantiasi delle derive post-psichedeliche e post-prog, leggasi il jazz-rock, la fusion intrippata del BITCHES BREW di Miles Davis – nel migliore dei casi – e i manierismi baroccheggianti-neoclassicheggianti-sinfonici dei virtuosi dello strumento di turno.


MACCHINE PERTURBANTI







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"I Soft Machine nascono, ancora e di nuovo, sotto il segno duplice di Allen e di Burroughs, come chiarisce subito il nome, preso dal romanzo dello scrittore che, nel 1961, inaugurò la trilogia in cui applicava sistematicamente la tecnica del cut-up. Siamo nel 1966 e la band è composta da Wyatt, Ayers, Allen appunto e Ratledge. Allen rimolla molto presto, letteralmente bloccato al di qua della Manica per questioni di visti e permessi revocati e con in testa fantasmagorie tutte sue che necessitano di uno spazio tutto loro: andrà a creare i Gong, altro pilastro del suono e dell’immaginario canterburiano. Ayers resiste fino al primo disco, poi farà Kevin Ayers e basta. Cosicché, dal secondo album in poi, la formazione, pur sempre aperta a ospitate varie (Canterbury significa
collettivo e laboratorio), diventerà Wyatt (voce, batteria), Ratledge (tastiere) e il ritornato Hopper (basso). I primi due album dei Soft Machine sono un caleidoscopio stordente di idee, di trovate, citazioni, ammiccamenti, gag, frammenti poetici, momenti (r)umoristici che dipingono alla perfezione gli anni di cui sono figli. Il primo, l’omonimo THE SOFT MACHINE, prodotto da due big come Chas Chandler (bassista con gli Animals e pigmalione di Hendrix) e Tom Wilson (produttore scansafatiche che aveva firmato però l’esordio di Velvet Underground e Zappa, il Dylan elettrico, Simon & Garfunkel, il free jazz più avant, nonché gli stessi Animals), viene registrato in aprile e pubblicato nel dicembre del 1968, mentre l’Europa è una sorta di barricata perenne tra libri, libretti rossi e molotov. L’effetto patchwork colto e disordinato è forte e i brani puntano a stordire l’ascoltatore, mimando quasi l’assalto fisico (fin dall’iniziale Hope For Happiness).

VOLUME TWO, che esce, autoprodotto stavolta, nel 1969, sembra in qualche modo addomesticare la formula, o comunque gestirla con maggiore oculatezza, regalando anche squarci di straordinario lirismo wyattiano, pur nell’autocompiacimento più programmatico del nonsense (la
Pataphysical Introduction divisa in due segmenti) e tra omaggi espliciti a Zappa, a Hendrix, al guru della letteratura postmoderna Thomas Pynchon, a Schönberg. Robert porta la libertà, l’elasticità del jazz nel batterismo rock, ma senza perdersi negli shuffle dello swing, per carità: il suo orizzonte ideologico è quello del free e si sente forte e chiaro. La sua voce è uno sforzo di equilibrio continuo, il volo di un uccello colpito, che cambia rotta, ma non casca mai per terra e sparisce alto. Soprattutto, è una voce unica, al di là del complimento implicito che connota l’aggettivo, in senso stretto: non ce n’è un’altra simile, davvero “uguale a se stessa e basta”.




Se nel disco che si chiamerà FOURTH (1971) c’è ancora Wyatt alla batteria, un Wyatt letteralmente muto, che non canta, perché l’andazzo ormai è quello, e con le ali tarpate, che neppure scrive nulla, in quel THIRD 1970) che è già comunque il disco di una band profondamente diversa da quei Soft Machine dada-sessantottini immediatamente precedenti, un disco che vede Wyatt all’angolo (le foto delle session lo ritraggono parcheggiato su una sedia, scazzatissimo), messo in minoranza politico-estetica da Ratledge e Hopper, in quel disco c’è l’alba di questo glorioso tramonto, un qualcosa che chiunque ami la musica vorrebbe poter testimoniare da vicino.

Su
Moon In June, diciannove minuti che, sulla carta, sono null’altro che un taglia e cuci di spunti e appunti vari, di cose scritte in vari periodi e in posti diversi, mischiate a sbocconcellamenti di pezzi già editi e addirittura di brani di amici (neppure accreditati; sono due canzoni di Kevin Ayers), un brano che gli altri due Soft si sono praticamente rifiutati di contribuire a creare e allora Wyatt se l’è dovuto suonare e montare in quasi completa solitudine, su questo Frankenstein sconfitto, lungo diciannove minuti, nessuno avrebbe potuto scommettere. E invece il mostro salta fuori tutto vestito lucido di miele d’acacia, risultando di abbacinante, imprendibile bellezza. Non vogliamo togliere niente agli altri pezzi della collezione, Facelift, Slightly All The Time e Out-Bloody-Rageous, mirabili, avvincenti costruzioni progressive. Ma qui siamo – è un concetto che torna spesso, avrete notato – in un altrove, in un’altra dimensione. Si potrebbe facilmente indugiare nella retorica dell’ispirazione e dell’ineffabile nel maneggiare questa cosa qui, eppure la sua bellezza sfuggente è perfettamente spiegabile, sta tutta in un banalissimo, sapiente dosaggio di elementi. Cosa rara peraltro in un brano nella tradizione delle grandi suite del rock, da Sister Ray dei Velvet Underground in avanti, banco di prova per improvvisazioni, sperimentalismi collagistici e rumoristici per definizione. In Moon In June c’è la voce leggermente come soffocata, sul punto di non farcela, di Wyatt, una voce nondimeno agile e in grado solo lei d’inerpicarsi lassù. C’è una batteria legnosissima. Ci sono due note di basso. Due note di tastiere elettriche. Basta. E bastano a tratteggiare un’atmosfera densa e sospesa, che sembra raccontare la storia di un abbandono sognante, unico possibile antidoto al nonsenso delle cose della vita.




Wyatt qui trova l’equilibrio perfetto tra urgenza di dire e volontà di non compromettersi dicendo troppo, come fa dire bene al suo alter ego, in bilico tra ciò di cui si ha bisogno e ciò che si vuole. Quando il pezzo sembra ormai in procinto di stingere anch’esso nel jazzrock proggheggiante che lo attornia, la voce di Wyatt decide di chiudere in bellezza e ricomincia a giocare con la propria coda, un po’ planare di delfino sott’acqua, un po’ Thema di Luciano Berio. Qui finiscono i Soft Machine di Robert Wyatt, i Soft Machine che sono stati Robert Wyatt, con uno dei suoi segni più maiuscoli.

Messo a mezzo servizio in casa propria, Wyatt coglie l’occasione per realizzare, quello stesso anno, 1970, il primo disco solistico, etichettato da uno di quei giochi di parole un po’ bambineschi, un po’ tetri e apocalittici che tanto gli piacciono: THE END OF AN EAR. Finisce un’epoca, ma lui continua. Bello, ispido e fragrantemente artigianale, l’album fa però un po’ il gioco della svolta recente dei Soft Machine, perché non presenta brani cantati o anche solo vocaleggiati. È un disco ingegnosamente, ingegneristicamente creativo, avventuroso, suonato per la stragrande maggioranza in solitaria e frutto di meticolose sovraincisioni, in cui la sensazione della liberazione personale emerge palpabile. Ma a cui manca una cosa,
quella cosa.




LA TALPA ABBINATA
(COL CULO PER TERRA)



Nel 1971, Wyatt, separato in casa con quella che era stata la creatura sua, ne crea il Doppelgänger sfottò, fin dalla ragione sociale: Matching Mole, gioco di parole con il corrispettivo francese di Soft Machine (
machine molle). La band si rifornisce dalla fucina di musicisti del giro Canterbury che Wyatt conosce da sempre come le sue tasche (due Matching Mole saranno poi i cardini degli Hatfield and the North, che, allo stesso tempo, sono uno spin off dei Caravan) e, come le band seminali da cui si era sviluppata tutta la genealogia canterburiana, avrà vita bruciante ed effimera. Due soli gli album all’attivo, utili a chiarire, al di là del valore specifico e qualora fosse ancora necessario, due cose importanti: il talento melodico di Wyatt (O Caroline, che apre l’esordio eponimo) e le sue posizioni politiche (MATCHING MOLE’S LITTLE RED RECORD è, maoisticamente, il suo “dischetto rosso”).

Nel 1973 la band si sfascia, troppi fili, troppi giri la attraversano e più che articolarne i movimenti la legano, la paralizzano. Wyatt, per conto suo, è sempre più sbandato, lo stile di vita sregolato che la sua produzione musicale e il suo modo di presentarsi lasciano intuire ne sta segnando pesantemente il viatico. Come compagni di bevute, in gioventù, aveva avuto maestri come Hendrix e, pericolosissimamente, Keith Moon. Le loro sono lezioni che non si scordano. La band risorge con un rimpasto di formazione insperato e si appresta a registrare un terzo, nuovo disco. Ma. Però. Se la tragedia è una commedia rovesciata o, meglio, specchiata, vista negli occhi dell’altro, capiamo bene come la gag
slapstick di scambiare una porta per finestra fa ridere molto poco, se a essere scambiata per porta è una finestra e ci si trova, ubriachi fradici di tequila e Southern Comfort (routine questa con sopra la firma di Moon), al quarto piano di una casa non propria. È il primo giugno del 1973. In cielo c’è la luna. Robert è a una festa, a Londra, e c’è mezza Canterbury suonante. Mette il piede fuori, a un certo punto. Vola giù. È fortunato, per due ordini di motivi. Non muore. E, come dirà lui stesso, trent’anni dopo: «Visto lo stile di vita che conducevo all’epoca, l’incidente la vita me l’ha salvata, perché me l’ha fermata». L’effetto collaterale di cotanta fortuna però è la paralisi totale della parte inferiore del corpo. Robert si rompe la schiena e il Wyatt batterista istintivo, timbrico e genialoide scompare in un istante. Resta l’altro Robert, l’altro Wyatt, che poi è in fondo quello più altro, quello più alieno e nonostante tutto più nostro. Nonché quello più influente e capace di tenerli assieme tutti quanti, col filo rosso sottile di una voce unica: il casinaro patafisico scatenato e il bozzettista di scorci lirici. Il ritorno su disco di Wyatt dopo l’incidente testimonia un lavoro che non è più accumulazione, stratificazione, ma panneggio, con qualche picchiettatura studiata ad arte. Ci sono tante cose dentro, molte peraltro pensate, decise e scritte prima del volo. Tante cose, ma ciascuna ha il suo spazio, il suo silenzio attorno.




Ci sono dentro tanti amici, come sempre: il disco è prodotto da Nick Mason dei Pink Floyd e suonato da Mike Oldfield, Ivor Cutler, Fred Frith, Hugh Hopper, Richard Sinclair, tra gli altri. È personale questo disco, parla di quello che è successo, fin dal titolo un po’ crudele, ma allo stesso tempo è capace di trascendere il momento e i perché del caso, diventando qualcosa di più grande, di più generale, di più astratto. Quando si parla di ROCK BOTTOM (1974), da sempre alto anzi altissimo nelle classifiche dei migliori dischi di popular music di tutti i tempi (come non ricordare l’argento fisso assegnatogli da Piero Scaruffi, dietro a TROUT MASK REPLICA di Captain Beefheart), non si parla praticamente mai di musica folk, eppure l’atmosfera stranitamente bucolica che vi si respira dentro fa pensare proprio a un folk d’altrove (di nuovo), come un folk lunare. In pieno contrasto con il titolo, ulteriore calembour dai recessi profondi dell’anima, quando non resta più che raschiare. Con il culo per terra, toccato il fondo, si può solo risalire, rischiare. Capolavoro intimista di dolore, sublimato in piccoli tocchi trattenuti di percussioni, tastiere e fiati, tappeto rosso sfilacciato ed elegantissimo per una voce mai così sofferta, mai così protesa oltre se stessa, basterebbero la tetra canzone d’amore fatta di brina e di nebbia che è
Sea Song, basterebbe la filastrocca idiota e disperata di Alifib a fare di questo fondale, di questo “punto più basso” il punto più alto di tutta una carriera. Lo era già prima, sia chiaro, ma con ROCK BOTTOM Wyatt diventa per sempre uno dei santini assoluti dell’alternativismo musicale di quegli anni: ne è la mascotte. Cuore pulsante e prezzemolo della scena canterburiana in tutte le sue ramificazioni, nei Soft Machine aveva fatto tournée con la Jimi Hendrix Experience, era stato sfiorato da un Kim Fowley dall’occhio lungo (se li voleva accaparrare lui) e aveva suonato in segreto per il Syd Barrett cappellaio matto solista. Dopo l’incidente, Wyatt sarà guest fisso di tutta la scena avant/sperimentale che unisce art rock, prog, jazz rock, “unpopular popular music” e sperimentazione extra-accademica: suonando con Brian Eno, con gli Henry Cow, interpretando John Cage, arrivando, in anni più recenti, fino a Pascal Comelade e, significativamente, a Björk. Nel dispiegarsi del suo profilo da solista, acciaccato e nobile, la sua poetica si è andata affinando, certo, stilizzando, nessun dubbio, ma in fondo è sempre rimasta la medesima: un gioco surreale, orgogliosamente anche un po’ naïf, con la materia musica e con la voce pensata come fiato di vita e strumento, trascinato da intuizioni folgoranti e da brucianti passioni. Anche a costo di apparire fuori fuoco, fuori posto. Altrove rispetto all’altrove suo proprio. Nello stesso anno di ROCK BOTTOM, per esempio, Mason gli produce anche un singolo che arriva fino a Top of the Pops, dove Wyatt, tra l’imbarazzo del network e probabilmente di almeno parte del pubblico (in sala e davanti agli schermi), si esibisce tutto storto com’è sulla sua carrozzina, in un playback fuori sincrono, a metà tra l’autoipnotizzato e lo scatenato. Il pezzo è una cover piuttosto fedele di I’m a Believer dei Monkees. Anni dopo farà sua Guantanamera (si trova nel disco di cover politiche NOTHING CAN STOP US, del 1982; dentro anche il gioiello Shipbuilding, scritto da Elvis Costello, contro la guerra nelle Falkland), ma con un trattamento più personale, pesantemente influenzato dallo spirito dell’epoca e, quindi, tutta affilati strapazzamenti che andavano fatti per dire di essere new wave. Stefano Tamburini, nei panni del critico musicale Red Vynile, sulle colonne di «Frigidaire», non avrà peli sulla lingua nel portare all’estremo un’opinione certamente diffusa, almeno tra quelli che erano stati i fan barricadieri dei Soft Machine e del Wyatt folletto psichedelico, riguardo a operazioni del genere, indugiando nella descrizione di cosa gli avrebbe fatto, allo “storpio”, per aver osato produrre certa “merda”.
  

 

COMICA FINALE


Ecco, il rapporto con le cover e quindi con l’altro da sé è una chiave d’accesso certamente laterale ma in fondo privilegiata per entrare dentro le dinamiche della musica di Wyatt.
Bricoleur senza vergogna, remixatore ante litteram delle musiche sue, degli amici e delle figure che ne hanno influenzato il percorso musicale, Wyatt ha al momento congelato la carriera solistica, puntellata da episodi eccellenti (tutti citano almeno RUTH IS STRANGER THAN RICHARD, 1975; SHLEEP, 1997; CUCKOOLAND, 2003, e noi ci accodiamo felicemente), con la moglie pittrice Alfreda Benge sempre più coinvolta e determinante (nonché responsabile di praticamente tutte le copertine più iconiche del marito), con un disco very Robert Wyatt, che per il 30% almeno è un sorprendente disco di cover. Parliamo di COMICOPERA, anno 2007, disco dell’anno per «The Wire», storico e supersnob magazine di ricerca che, con gesto romanticamente demodé, lo ha preferito al capolavoro di un altro suo santino alt, stavolta recente, il produttore dubstep Burial, che proprio a fine 2007 aveva pubblicato il suo secondo – e, anche qui, al momento ultimo – album UNTRUE. COMICOPERA è un sorriso struggente, una mini-galleria di piccoli gouache, rigorosi e volutamente appesi storti al muro, organizzati in tre atti; ognuno di essi racconta una storia bella, che un po’ fa ridere e un po’ fa piangere. Uno dei picchi assoluti e, possiamo dirlo, francamente inattesi del disco, è la cover da pelle d’oca della già splendida Del mondo dei nostrani CSI. Canzone del mondo primitivo, di freddo, sangue, carne e lana, profondamente ferrettiana, Wyatt la fa sua e la grazia con la sua voce speciale, qui davvero fragilissima, come di chi sta per addormentarsi in letargo, emergendo ancora una volta come il maiuscolo bardo della musica che ci piace che è.   

Gabriele Marino   





       
     
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