Rock Bottom
1974

Robert Wyatt

   
 


 


MUCCHIO - dal 25 luglio al 4 settembre 2000 - n. 407

Robert Wyatt - Rock Bottom - Hannibal /Rykodisc

Alessandro Besselva

 




Nel 1974 il distillato di rock, pop, jazz (classico e free), anarchia, provocazione dadaista e humour molto inglese che va sotto il nome di scena di Canterbury - è un'invenzione della stampa musicale, d'accordo, ma anche una comunità che si nutre della stessa visione - sembra aver già dato i frutti migliori. Nella gran parte dei casi, chi non è finito nella strada senza uscita di un jazz rock perfetto ma freddo o di un progressive rock fine a se stesso, ha perso l'allucinata lucidità degli esordi. Robert Wyatt è un caso a parte: escluso, a causa di manifeste tendenze eretiche - evidenti già nell'esordio solista del 1970 (l'esperimento surreale di The End Of An Ear) - dal gioco Soft Machine, arriva a registrare Rock Bottom dopo innumerevoli vicissitudini, tra cui la fondazione degli sfortunati Matching Mole e la partecipazione ad una miriade di altri progetti. Uscito in un momento durissimo della vita del Nostro, l'album contiene sei piccoli capolavori che riportano alla luce la visione di una musica liberata da vincoli formali eppure assolutamente godibile e cantabile, discorso che avrà un ideale seguito, con una percentuale di militanza e osticità in più, nella saga degli Henry Cow e di Rock in Opposition.

Gran parte delle idee che finiranno sull'album, Wyatt le concepisce negli ultimi mesi del 1972, quando segue la futura moglie Alfreda Benge a Venezia, trascorrendovi alcuni mesi. Sulla laguna inizia a comporre, su un piccolo organo portatile, le musiche che presumibilmente finiranno nel repertorio dei nuovi Matching Mole. L'insistenza del bassista Bill Mc Cormick lo ha infatti convinto a riformare il quartetto, scioltosi alcuni mesi prima, il quale è nuovamente operativo nella primavera del 1973: in organico, questa volta, l'ex Curved Air Francis Monkman e Gary Windo al sax. Ad interrompere la sequenza degli eventi ci pensa il destino, con un volo dal quarto piano nel corso di un party alcoolico, il primo giugno di quell'anno: la frattura della dodicesima vertebra costringe da quel momento il nostro su una sedia a rotelle. L'incidente probabilmente accelera un processo che è già in atto, quello di estendere ulteriormente la ricerca musicale al canto e alle tastiere. Wyatt, del resto, non si è mai considerato un batterista puro, manifestando da sempre la volontà di "avere un controllo complessivo sulla musica", un controllo che non esclude collaborazioni e scambi d'idee. La coralità è il punto di forza di Rock Bottom, e l'elenco degli ospiti che si alternano in studio nei primi mesi del 1974 è impressionante: il batterista Laurie Allan (nei primi Gong), l'ex compagno nei Softs Hugh Hopper, Richard Sinclair, che ha da poco mollato i Caravan per dedicarsi ad Hatfield And The North, il trombettista sudafricano Mongezi Feza, il jazzista newyorchese Gary Windo, Fred Frith degli Henry Cow, il poeta-performer Ivor Cutler, l'ormai lanciatissimo Mike Oldfield. Naturalmente, c'è anche Alfreda Benge, musa ispiratrice dell'intera opera. Ma forse l'album non sarebbe stato il capolavoro che conosciamo senza Nick Mason al banco del mixer. Wyatt non ha mai avuto un grande rapporto con i produttori, lo dimostra lo scarso feeling con Robert Fripp in occasione delle registrazioni di Little Red Record con i Matching Mole, ma la frequentazione con Mason risale ai tempi dell'UFO Club. Oltre a mettere Wyatt a suo agio, il batterista dei Pink Floyd ha il grande pregio di organizzare il suono in maniera compatta, amalgamando voce, tastiere e percussioni agli eterogenei contributi degli ospiti, tutti registrati in un secondo tempo. Fatta quest'ampia - ma dovuta - premessa, la prima cosa a sorprendere, è la semplicità: Sea Song esordisce con poche note di piano e tastiera che anticipano e poi seguono la voce, limpide ed essenziali. La seconda è, per l'appunto, la voce. Difficile descrivere quel falsetto in grado di diventare - non è un luogo comune - uno strumento vero e proprio, a tratti fievole respiro, a tratti protagonista di veri e propri assoli, come in Last Straw, dove c'è l'invenzione di un effetto wah-wah da brividi. Sempre sul punto di incresparsi o infrangersi, ma sempre capace di trovare l'assetto ideale. Se nei primi due brani la calma da fondale roccioso regna sovrana, tra suoni liquidi e stratificati, in Little Red Riding Hood la tensione è guidata dalla tromba aliena di Feza e dalle percussioni: la melodia si costruisce ed emerge poco alla volta, intonando un canto disperato. La calma ritorna con Alifìb: il respiro si fa ritmo lievissimo, le tastiere disegnano capricci melodici e la voce intona una ninna nanna di nonsense e strofe d'amore alla compagna Alfie, protagonista di un duetto nella seguente Alifie, la quale sfocia in un'improvvisazione del sax di Windo. Little Red Robin Hood Hit The Road è l'ultima della collezione. La tensione iniziale - le rullate marziali di Allan e la lancinante chitarra di Oldfield, per una volta sobria - si scioglie nella declamazione surreale di Cutler accompagnato dalla viola di Frith. L'influenza sotterranea - si tratta pur sempre di un fondale roccioso - di questo lavoro è emersa periodicamente nel corso degli ultimi venticinque anni: senza Rock Bottom non avremmo avuto, tanto per fare un esempio, i Gastr Del Sol di Camoufleur. A dimostrazione che le attuali esplorazioni intorno ai confini del rock -post o meno - continuano ad attingere energia da questo capolavoro.





 


LIBERATION - 5 décembre 1974

Robert Wyatt

J. N. O.

 




Dans la masse de disques sortis, il en est d'excellents, peu d'importants, et d'ailleurs vous les connaissez déjà tous grâce à votre mensuel spécialisé. S'il faut n'en choisir qu'un, c'est sans conteste la magnifique réalisation du musicien anglais bien aimé des Français qu'est Robert WYATT. Vous avez beaucoup lu, à propos de ce merveilleux album qu'est " Rock Bottom " (Virgin 840043), aussi je ne m'étendrai pas plus (chouette, la pirouette, non?); et puis vous êtes déjà un bon nombre à le posséder, ce nouveau pilier de discothèque. Pour les autres malheureux, sachez qu'il s'agit d'une superbe synthèse de tout ce qui s'est fait dans le rock, de tout ce qui se fait et se fera, et que vos arrières petits-marmots vous remercieront de les avoir bercés avec. Volez-le, tuez pour l'avoir, mais écoutez-le. Et avant qu'il n'obtienne le grand prix de l'Académie Charles Cros du meilleur disque pop. C'est à espérer, c'est possible, mais cela pourrait refroidir certains indairgraounde pipaul qui ne le connaissent pas encore. Ne crachons pas sur ce prix " qui consacre ", Electric Ladyland " l'avait obtenu. Et avant la mort d'Hendrix. Et tac!...





 
TELERAMA HORS-SÉRIE - juin 1993

Robert Wyatt - Rock Bottom

Virgin

Philippe Barbot

 


Le voyageur immobile. Ermite paraplégique, artisan impressionniste et militant communiste, Robert Wyatt fut, en des temps antédiluviens, le batteur-vocaliste de Soft Machine, le groupe qui improvisa la naissance, non du jazz rock, mais d'une sorte de rock jazzeux. Depuis, ce sculpteur d'arabesques sonores a développé un paysage musical ourdi de lentes mélopées, de comptines grelottantes, de faux gospels sud-américains au swing plaintif, de collages sonores pataphysiques et de poésie sociale malicieuse. Rock bottom, paru en 74, fut considéré d'emblée comme un chef-d'œuvre baroque et introspectif. Un peu au rock progressif ce qu'est Bilbo le Hobbit à la littérature fantastique. Ce sombre et méditatif opéra pour claviers lugubres, harmoniums étouffés et conciliabules tintinnabulants susurrés d'une glotte acide, reste une œuvre à part. Un de ces disques culte dont on se fait, égoïstement, un intime jardin secret.




 
NEW MUSICAL EXPRESS - 27th July, 1974

Can a Wyatt man sing the blues?

Robert Wyatt - Rock Bottom (Virgin)

Ian MacDonald

 

COUNTING Matching Mole's first album, this is Robert Wyatt's third solo record.

It echoes his previous ventures in being a strong statement of mood, but replaces the occasional self-defensive evasions of the specific (always present in his previous lyrics) with a particular focus on what's happened to him over the past year - since the accident which left him paralysed from the waist down.

Rather a unique experience for a rock musician, becoming a paraplegic. Somewhat pales the significance, of, say, Lou Reed's fascination with the mental casualties of the Big H, doesn't it?

Rock Bottom is a heavy album.

It's also an uplifting one - a very original vision which pursues self-pity through a bleached out, child-like surrealism of the mind towards a final resolution - a resolution genuine enough to make listening to the album, whilst always moving, never as consciously harrowing as, say, a slice of wilful imagination like Berlin.

Quite apart from which, the element of humour present throughout would stamp this as a real experience, whether you knew the story behind it or not. From the pun of the title alone, you'd know the last thing you were going to hear was anything contrived or artificially assimilated.

Tunes are nice, too.

The opener 'Sea Song' confirms Wyatt's penchant for the recent work of Stevie Wonder - a transparent lushness drifting off the melange of keyboards (all played by him) like sea-weed writhing slowly in the tide. The child-like atmosphere is established at once, focusing on physical facilities as if already aware that something's coming that'll change their meaning.


The troubled sense of precognition in a state of shocked mental childhood intensifies through the restless harmonies of 'A Last Straw' before, with a startling eruption of multi-tracked trumpets (all Mongezi Fesa), the moment of truth dawns in the shape of 'Little Red Riding Hood Hit The Road.'

A rushing, windy sound, flickering with backward-tapes, envelopes Robert's voice: "Oh no / Heaven's above / I can't stand it / Stop it please / Oh dear me ..."

(Factual note. People with spinal injuries aren't given painkilling drugs for the first couple of days after their accident in order to facilitate the doctors' diagnosis of the seriousness of their complaint.)

On Side Two the lyrics emerge as if from anaesthesia - like the baby language at the beginning of Joyce's Portrait Of The Artist - and centre around Robert's wife Alfie, who herself makes an appearance later on.

'Alifib' and 'Alifie' are closely-linked compositions, the former dream-like and unreal (featuring a beautiful sped-up bass guitar solo by Hugh Hopper), the latter gradually widening into the light of day (via a passionate extended break from Gary Windo's tenor.)

The album closes with the aforementioned resolution in the fullest stretch of musical vision so far - 'Little Red Robin Hood Hit The Road.'

Starting with a surge of energy in cross-currents from Wyatt's keyboards to Mike Oldfield's guitar (including one of the themes from Tubular Bells) over a rhythm swirl between Richard Sinclair's bass and the drums of Laurie Allan, the track melts into a long drone sequence on two chords from a baritone concertina.

Above this, Fred Frith of Henry Cow accompanies the recitation of Ivor Cutler with his amplified viola. The poem itself doesn't give an inch and the album finishes with a grim smile.

Rock Bottom is, along with Slapp Happy and Wigwam's Being, probably the least derivative music around in the rock idiom at the moment. However exciting the developments on the main stage right now, they're all, ultimately, based in previous developments; Rock Bottom has no antecedents - which is a rather roundabout way of telling you it's pretty far-out.

On the other hand, its intensity and poeticism - linked by a characteristic self-deprecatory whimsy - render even its most elliptical reaches emotionally accessible to all.

If you're interested in real exploration of the bounds of rock, without intellectual posturing or moral pomposity, this record is the month's best buy - at the very least.





 
CHARLIE HEBDO - N° 197 - 26 août 1974

MECHAMMENT ROCK

Doublemain (Pierre Lattès)

 


Suis-je objectif, suis-je ? Ce disque de Robert Wyatt, je voulais qu'il soit bon. Ce n'est pas de ma faute s'il est extraordinaire. Je répète, s'il est extraordinaire. Imaginez que vous ayez un pote que vous considérez comme un des meilleurs musiciens du moment, qu'il arrive à se foutre par ta fenêtre et à se retrouver paralysé des membres inférieurs, qu'il soit batteur, et qu'il fasse ensuite son premier disque comme chanteur, pianiste et percussionniste, vous ne seriez pas mécontent de cette réussite. Peut-être seriez-vous, comment dirais-je, impressionné par une photo publicitaire où l'on voit Robert, assis dans sa petite chaise roulante, tenant sur ses bras croisés une statuette de nain ventru décapité qui lui arrive juste sous le menton. Il ne faut pas se laisser impressionner, je sais. « Rock Bottom », produit par le batteur du Floyd, Nick Mason, est publié par Virgin Records (V 2017), et va sortir un de ces jours distribué par Barclay. Mais c'est tout de suite que j'ai envie de vous le raconter.

Il y a très peu de musiciens, mais bien choisis, et le studio d'enregistrement a été, pour une fois, vraiment utilisé comme instrument de musique. Mais, pour une fois également, tous les « trucs » servent la conception finale et les boucles, les ré-enregistrements, les échos, les bandes à l'envers, ne sont pas comme ajoutés à la musique, et en font intégralement partie. Pour une fois, ce qui devait être dit en quarante minutes n'aurait pas pu être condensé en un quarante-cinq tours. Et cette partie de Soft Machine qui apparaissait de temps en temps dans les vieux disques du groupe est développée complètement, bien mieux encore que dans Matching Mole, le groupe que Robert Wyatt avait formé à son départ des Soft. Ça ressemble à quoi ? Justement, ça ne ressemble à rien. C'est probablement pourquoi Steve Lake, dans sa critique, élogieuse, de Melody Maker, prévient qu'il ne s'agit pas d'un album... « qui vous clouera au mur par des effets pyrotechniques éblouissants, mais d'un disque que vous écouterez et ré-écouterez, longtemps après que les super-héros de 1974 auront prouvé n'avoir été que des passades ». Je ne suis pas tout à fait d'accord, seulement dans la mesure où, en plus, j'en ai pris plein les oreilles. Sur un plan purement musical, il y a là la réalisation de toute une série de promesses du rock, si mal tenues par tant d'autres. Entre autres : d'être tout bêtement, simplement, original. D'autres combinaisons de notes, d'autres sons, d'autres mots. Pas si facile apparemment. Et pis surtout cette étrange faculté de faire passer l'énorme quantité d'émotion dans une galette de plastique, quelque chose qui n'arrive jamais. D'abord, ça ne se fait pas. Surtout dans le monde du rock. Quand ça se fait, c'est bêlant. Le petit pincement venant d'un synthétiseur, je pensais que ça n'existerait jamais. Des musiciens qui se mettraient entièrement au service d'une musique, et arriveraient par là à se dépasser, je pensais que ça n'arriverait plus. Un ban pour Hugh Hopper et Richard Sinclair à la guitare basse. Un ban pour le batteur Laurie Allan, pour le trompettiste doublement de poche Mongezi Feza, pour le saxophoniste ténor et clarinettiste basse Gary Windo, pour le guitariste Mike Olfield, pour Fred Frith à l'alto. Pour Ivor Cutler qui chante et joue du concertina baryton ( ! ?), un triple ban pour Alfreda Benge qui cause. C'est elle qui est la muse à laquelle on doit de pouvoir demander un ban multiple et bruyant pour Robert Wyatt qui dit qu'il l'aime. Un ban aux ingénieurs du son qui ont compris ce qu'on leur demandait. Un ban pour moi à tout hasard. Un ban pour vous quand vous aurez écouté Robert Wyatt. Et avec ça, faut-il vous l'envelopper ?




 
ROCK'N'FOLK - N° 93 - octobre 1974

Rock Bottom - Robert Wyatt

Virgin 840.043 (dist. Barclay)

Paul Alessandrini

 


Il faut que je vous le dise: décidément, ce disque de Wyatt atteint une telle beauté, une telle perfection dans l'assemblage des éléments sonores qui sont sa culture musicale (jazz, électronique, ballade et rock-music), que tout pouvoir critique est annihilé. Wyatt a jailli de sa nuit avec le disque le plus secret, le plus passionné, le plus ample, le plus chaleureux (disque de murmures et de vibrations, mais aussi de cris, d'appels, disque plénitude, oeuvre totalisante) que l'on a pu enregistrer cette année. Techniquement, c'est aussi grandiose qu'un disque de Todd Rundgren, mais avec la sensibilité en plus, c'est aussi fou et angoissé qu'un disque de Kevin Ayers, mais avec un plus grand perfectionnisme sonore, tout aussi jazzistiquement rock que les albums de la Soft Machine, mais la folie en plus. Mais il y a aussi, puisque nous en sommes réduits à un inventaire, la voix unique de Wyatt, totalement a-culturée, donc sans effet superflu, naturelle. On rencontre dans ce "Rock Bottom" les échos, les boucles sonores, la voix qui chante, mais aussi le texte dit, insistant, les histoires et l'émotion brute, la mélodie et les fracas, les envolées lyriques et le recours constant au rythme. Cela ouvre avec le dépouillement de la voix dans "Sea Song", chanson lente que vient envelopper un superbe brouillard sonore, et Wyatt vocalisant enfin. C'est simple et grandiose à la fois. Aucun artifice, juste la recherche de l'émotion. "A Last Straw" a une coloration soft machinienne, celle de l'époque de "Hope For Happiness"; même l'orgue dont joue Wyatt vient rappeler cette atmosphére de ballade curieusement torturée qui fut la marque du Soft, ce pouvoir de pénétrer un inconnu du son presque originel (les notes du piano égrenées). "Little Red Riding Hood Hit The Road" serait plutôt une tentative de symphonisation avec collages multiples de sonorités (flambée des sons), une apocalypse maîtrisée; intensité du background que vient encore recouvrir cette voix engourdie et pleine d'une chaleur presque enfantine. Tout sera décuplé par le jeu des échos, les bandes miroirs réfléchissant à perte de sens les sons pour enfin sombrer dans l'ombre.

"Alifib", c'est encore une chanson-dépouillement, réveil d'une voix que porte une delicatesse sonore admirable, avec notamment la basse d'Hugh Hopper. "Alifie", qui suit, est aussi centré autour de l'évocation-hommage de Alfie, la femme de Wyatt. Même insistance de ce climat de rêve évoqué à voix haute, jeu avec les ombres, les visions que souligne le saxophone de Gary Windo. Pour le titre qui clôt le disque, "Little Red Robin Hood Hit The Road", Robert Wyatt a voulu un grand déploiement sonore, intervention à l'unisson de Mike Oldfield à la guitare ou de Fred Frith (cf. Henry Cow) au violon; texte récité par Ivor Cutler et la voix de Wyatt. C'est ce morceau qui donne toute la mesure de l'accomplissement musical de la démarche de Robert Wyatt. Il est aussi une des plus belles choses que l'on ait réussi à faire sur ce territoire ô combien périlleux où voudraient se rencontrer la folie, l'invention et l'émotion. Cet inventaire ici fait n'est bien entendu que la tentative d'un survol d'une oeuvre riche, aux multiples séductions secrètes. Les dernières secondes seront, vous le découvrirez, pour un pied de nez musical, juste pour nous rappeler que Wyatt n'a pas perdu son humour. Que vous dire de plus ?




 
ACTUEL - N° 48 - novembre 1974

Le rock du paralytique


 


Devinette : quel est le meilleur album de l'automne ? Ceux qui ont répondu Lou Reed ont gagné des coups de pied au cul. C'est, bien sur, Robert Wyatt et son « Rock bottom » (Virgin-Barclay) qu'il fallait identifier : un album si beau qu'on ne sait pas par quel bout le prendre ni comment en parler pour éviter d'en donner une idée limitative. « Rock bottom » ne porte pas le cachet de son époque et toutes les références, rock, free jazz, musique planante, Soft Machine, tous les détails techniques, re-recordings et bandes à l'envers, tout cet arsenal du critique pop ne peut que créer un écran de fumée. Je n'ai même pas envie de faire de la retape : « Rock bottom », c'est certain, va nous tenir compagnie pour les dix ans à venir, et vous tomberez dessus tôt ou tard. Il faut de temps en temps laisser faire le hasard. Quelques mots quand même : la musique est triste, parfois oppressante ou poignante. La voix traîne des mélopées allongées sur la plaine sombre d'un accord d'orgue ou de mellotron. On tombe en plein désespoir, traversé par les cris de souffrance, « stop it », « Lord have Mercy », on remonte vers la mélancolie, on atteint parfois une euphorie salée par un arrière-goût de larmes. Wyatt provoque chez tous les musiciens de l'album des épanchements passionnés : cela ne nous surprend pas trop chez Mongezi Feza, dont la trompette démultipliée sonne comme la fanfare de l'apocalypse, ou chez Mike Oldfield, guitariste toujours lyrique, mais on reste émerveillé devant le brûlant solo de basse (accéléré et remonté de quelques octaves) du cérébral Hugh Hopper. La musique de Wyatt fait des miracles. Ce disque est un miracle. Je pourrais en parler des heures, j'en deviens gâteux, il vaut mieux que je passe la parole à Wyatt. Un musicien qui a quelque chose à dire, voilà qui nous change rudement.




L'avant-garde :
« Les gens venaient me voir en coulisse pour me dire « oh ! ça fait du bien d'entendre quelque chose d'intelligent au lieu de toute cette soul music pour analphabètes. » Ils pensaient être très flatteurs, mais ça me mettait mal à l'aise. Aujourd'hui je me mettrais en colère. Je ne comprends pas ce désir de paraître plus intelligent que les autres. A l'hôpital, après mon accident, j'ai écouté beaucoup de cassettes, et j'ai découvert que je n'arrivais pas à écouter les gens qui font de la « musique intéressante ». Et des gens que je considérais comme gentils mais superflus sont devenus mes favoris — des gens comme J.-J. Cale et Bobby Charles. Cela vous étonne de m'entendre dire ça ? Si on m'avait dit ça il y a cinq ans j'aurais été moi-même choqué. Une bonne partie de la musique innovatrice fait penser à de l'espéranto. Souvent les gens qui ont quelque chose à dire ne se donnent pas la peine supplémentaire d'inventer un nouveau langage pour les exprimer — les langages établis leur conviennent. Souvent les créateurs vraiment imaginatifs n'éprouvent pas le besoin de restructurer le langage musical. »

Le rock :
« Je trouve l'atmosphère qui entoure le rock tristement dépourvue d'humour, pompeuse et morne. Le rock ressemble à une sorte de substitut de service militaire. Les critiques proclament souvent que le rock a certaines limitations de style et que ça vaut mieux pour lui. On pourrait dire la même chose de la musique militaire. On dit que les groupes de rock subissent l'influence du rhythm and blues, mais ces tempos carrés qu'ils utilisent tous n'ont rien de commun avec les rythmes fluides, spontanés et dansants du rhythm and blues.



 
LA MINUTE DU MELOMANE #23 - ROBERT WYATT (2018)

www.oreille-moderne.com

Laurent Rousseau


 







 
       

Critiques/Reviews