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 Robert Wyatt - Il beato diventa santo - Ciao 2001 - N. 41 - 13 Ottobre 1974


IL BEATO DIVENTA SANTO

 

  ROBERT WYATT
Il beato diventa santo
 
 
Esce "Rock Bottom" che prosegue senza limiti per la strada intrapesa tanti anni fa. robert rappresenta la realtà sublimale dell'essere umano che viene a contatto con un universo puro e in cantevole.


 

Se la nostra musica è veramente l'espressione più appariscente di tutta una nuova cultura, alternativa perché rinnovata dalle fondamenta; se il gusto della canapa e della psichedelia ne è realmente una parte integrante, come innegabile realtà di fatto; se è proprio vera la nuova constatazione che anche un insieme di note e di suoni, se accostati in un certo modo, può esprimere un potenziale politico-rivoluzionario a volte più efficace e immediato di un intero volume di disquisizioni verbali; se la regione più intima della psiche umana è realmente poesia universale e percezione di infinito; se, infine, è vero che la liberazione del corpo non può essere subordinata, ma deve procedere di'pari passo con la liberazione della mente: allora Robert Wyatt l'Emarginato, il Grande Escluso dalla festa del Konsumo, è forse veramente il più autentico Santo assolutamente laico espresso da questa nuova cultura (limitando l'esame esclusivamente alla sua ramificazione musicale).

La musica di Robert Wyatt potrebbe essere definita come tentativo di rappresentare la realtà subliminale dell'essere umano, sfrondato dagli ideologismi di potere inculcatigli fin dalla nascita e restituito, nella sua pura verginità rivoluzionaria, a contatto con un universo di Idee altrettanto pure e rivoluzionarie. Ascoltare un disco di Wyatt equivale, come minimo, al porsi una scelta ben precisa, e lo « scegliere », come insegna Sartre, è l'unico basilare modello di primigenia azione rivoluzionaria che l'individuo possa porsi per affermare sé stesso come tale; per cui tutto ciò che ti costringe ad una scelta reale è, potenzialmente, un fatto rivoluzionario. L'ascolto della musica di Wyatt ti pone la scelta se rifiutarla in blocco (e con questo semplice gesto, rifiutare la sua lezione di introspezione, accettare le regole del potere e, in ultima analisi, negarsi alla rivoluzione) o accettarla, se non subito in blocco, per lo meno in via sperimentale (e con questo, aprire la coraggiosa strada che porta ad una reale conoscenza di sé stesso, dalla quale deriva una reale aspirazione a conoscere e poi accettare gli altri, e, da ultimo, ad agire con essi).

Non me la sento, per parlare di Wyatt e della sua musica, di usare una determinata fraseologia tecnicistica da critico, che sarebbe l'arma migliore per neutralizzare tutti i suoi più reali significati: Wyatt non merita questo, perché è una persona che ha sempre, coerentemente, lottato con questa metodologia. Stette con i Soft Machine nei primi gloriosi anni Dada-ribelli, e non esitò ad abbandonarli quando essi adottarono una musica che, pur restando pregevole ad avanguardistica, non era però più rivoluzionaria, nel senso di indurre a una scelta, a una presa di coscienza alternativa. E se ne andò, dunque, non senza aver deposto in quel nucleo tanto amato un'ultima, colossale perla di commiato: «The moon in june », l'inno mentale e liquido che copre la terza facciata di « Third », album stupendo ma già stigmatizzato dalle prime ombre dei futuri compromessi.



Cosa Robert abbia fatto negli anni sconnessi che sono seguiti, lo si può soltanto immaginare ascoltando i suoi dischi, le rare gemme di una saggezza sconvolta e cambiata dalle fondamenta, che egli ci ha avaramente distillate, facendoci spasimare. «The end of an Ear » è stata la prima, e a tutt'oggi, ancora, forse la più fulgida, la più intimamente sconvolgente: la mappa torturata di un itinerario alla liberazione psico-fisica, il manifesto intimamente politico di una rivoluzione esistenziale prima ancora che culturale, come base imprescindibile per la messa in atto di una futura rivoluzione reale.

Robert Wyatt è anche la personificazione di una scuola (peccato che il termine sia cosi inadeguato, così storicamente compromesso) di musicisti che hanno il suo stesso approccio verso la realtà: approccio il cui minimo comune denominatore è da ravvisare in un certo disincantato umorismo che si pone, nell'ambito della creazione artistica, come reale forza dissacrante: uno « spirito » che è il diretto discendente dello Zappa degli esordi, e che è comune a tutta una famiglia di musicisti freaks, dai Caravan ai Gong, e di cui l'asse portante è costituito, appunto, dal trio Robert Wyatt-Kevin Ayers-Daevid Allen, detti anche i « fratelli della banana ». In effetti, la banana esprime per loro tutta una reale filosofia esistenziale, come mi spiegò Daevid Allen stesso qualche mesetto fa: « La Banana è quell'oggetto la cui buccia può farti scivolare, eliminando di colpo il tuo falso bagaglio di dignitosa serietà e facendoti sprofondare nel ridicolo ». Senza contare, aggiungo, che la banana è anche un simbolo lisergico, un simbolo sessuale e, infine, diciamolo, è anche buona da mangiare...

Con questa gente, di solito, Wyatt crea i suoi gioielli; con alcuni di essi formò i Matching Mole, scioltisi dopo averci regalato due nuovi sfrigolanti manifesti di « saggezza sconvolta »: « Matching Mole » e « The little red record ». Poi, Wyatt è scivolato sull'imprevedibile buccia di banana del suo destino: ora è paralizzato. Addio alla sua batteria meravigliosa... Addio? Forse no: per la Virgin, esce ora un nuovo gioiello, « Rock Bottom », nel quale, oltre a cantare (cantare? Che razza di definizione restrittiva!) con la sua orribile-stupenda voce dell'Anima & Basso Ventre, il Santo ricama arazzi purissimi su tutti i tipi di tastiere, e al suo fianco c'è gente del calibro di Richard Sinclair, Hugh Hopper, Mongesì Feza, Gary Windo, Mike Oldfield (vedi foto), tutti accorsi al suo richiamo. Cercare di descrivere « Rock Bottom » è assurdo. Tutto questo articolo è già da sé un (confuso) tentativo di definirlo. Paradiso è Sinfonia Futurista, sberleffo i rivelazione di un sublime di marca underground, tremore e bellezza: « Rock Bottom » non è soltanto un disco, è, sopratutto, un « test » rivoluzionario.


Manuel Insolera

       
     
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